Andrea Rompianesi
Scrittura Nomade - Viaggio polidiomatico di Arte e Cultura - Variazioni sul tema scrittura
domenica 2 luglio 2023
Enea Biumi, Sfulcìtt - Inganni, Lupi editore, 2022
mercoledì 28 giugno 2023
Angelo Manitta, La regina di Saba (La Reine de Saba), traduzione francese di Jean Sarraméa, Il Convivio Editore, Castiglione di Sicilia (CT), 2023
La storia della Regina di Saba viene narrata in tre libri diversi che rimarcano sostanzialmente un’unica vicenda: l’incontro della Regina con Re Salomone. Sia nella Bibbia, che nel Corano e nel Kebra Nagast, al leitmotiv dell’ammirazione della Regina per Re Salomone, si aggiungono la smisurata ricchezza del regno di Saba donata al Re e velatamente, per il Corano e la Bibbia, esplicitamente per il Kebra Nagast, l’amore tra i due regnanti. Gli studiosi hanno tentato di storicizzare l’avvenimento, ma rimangono dubbi e la distanza fra religione, leggenda e storia sembra non essere colmata.
Tuttavia, ciò che non riesce agli studiosi viene raggiunto dai
versi di Angelo Manitta che, in un unicum coinvolgente, attraversa storia,
leggenda, religione, offrendoci un ritratto che va ben al di là del dato
contingente per trasformarsi in qualcosa di immateriale, universale e senza
tempo. La poesia ha questa capacità illuminante e trasformatrice, sa uscire dal
marcescibile e donarci l’ebbrezza dell’assoluto.
In questo contesto il lettore affronta lo stesso viaggio regale della regina di Saba e si ritrova immerso in un mondo favoloso, al limite della magia e del surreale. È, tale, la funzione dell’incipit che ci introduce in una meravigliosa luminosità (“Sgranano grappoli di luce le alcansie / lanciate nell’aria da rotondi universi”) e il deserto diviene motivo di curiosità e di racconti ancestrali dove si misurano donne impaurite dai serpenti e bimbi incuriositi, dove le carovane attraversano esotiche dune e la sensualità si scontra con demoni tentatori. Siamo davanti ad una sorta di prefazione che serve ad introdurci nel munifico mondo d’una regina, che non solo offre al re stupende e innominabili ricchezze, non solo fa richiesta di strani e variegati quesiti, come se volesse testare la sapienza di Salomone, ma si concede in toto ad un amore sublime, materiale e spirituale allo stesso tempo.
Ecco allora che lo scandire delle azioni segnano il destino
degli amanti e le voci che si susseguono hanno la complicità e la varietà di un
andare musicale che accompagna gesti e pensieri. “Le mie parole volano in
eccelsi pinnacoli / e lì restano appiccicate in muti frontoni”. Ma non
esistono solo parole “che inseguono parole”. Esiste l’incombenza del
viaggio, l’anelito dell’incontro. La regina è circondata dal desiderio, immersa
in “tentazioni di stelle / flagellate dai tramonti (…) giochi d’amore / che
risvegliano fantasie di Eros nella bellezza / d’un maschio, sesso innocente di
piaceri.” Però il cammino sembra incedere lento, mentre “scie di
carovane (…) attraversano la pianura, solcano / il deserto”. E l’aspettazione
diventa bramosia d’amore. “Il sangue giovanile /delle sue passioni scorre in
fantasticherie / erotiche d’un giovane re che la violenti”.
La distanza geografica non si riduce ancora. Si fa sentire
nell’animo. Si traduce in similitudini evanescenti come sono evanescenti i
sogni e i desideri. “La strada è lunga, gli argini indefiniti” e non è
sufficiente l’oro di Ofir o le tazze di smalto o i tavoli d’argento. La regina sembra
impaziente, è impaziente: “spinge con gli occhi i saturi cammelli”, sebbene
nel frattempo “L’ansia dell’alba si è spenta nell’ombra / di un’oasi.” E
finalmente si annuncia lo sposo, in tutta la sua regalità di “nordico re”,
nella considerazione amorosa, nella dolcezza di una fantasia avveratasi nel
momento in cui “porge la mano ai datteri che pendono / dalla bocca di una
bianca imperatrice innamorata”.
L’incontro, a questo punto, palesa non solo la gioia
rasserenatrice della regina ma l’entusiasmo di un’intera popolazione, che si
vede come liberata da un incubo. “Mormora il passante tra le viuzze cupe, /
borbottano le voci entro le case buie. / Le maghe agli angoli fanno sortilegi,
// le puttane aprono le gambe agli avventori, / ignari dei turgidi sessi
abominevoli. / In filari, le porte, chiuse con spranghe / di legno, ondeggiano
al venticello delle colline, // e foreste di cedri, piantate sulle strade, /
come scheletri di abeti sognano ogni notte / giochi d’amore e coppe di vino /
innalzate al cielo per essere bevute.”
È facile notare, ora, che il seguito della regina (e ormai
anche del re) non è costituito solo da uomini, servi e liberi allo stesso tempo.
Il contorno che riempie lo spirito degli amanti è composto pure dalla natura
che segue, come in un tripudio magico, l’unione dei due protagonisti.
Dapprima la regina pone quesiti a Salomone che risponde in
maniera saggia e perfetta. “Gli occhi si incrociano in una sfida di sapienza:
/ enigmi proposti contro enigmi sciolti”. In un secondo momento,
abbandonate domande e sentenze, l’amore tra i due raggiunge il suo acme. Amore
sensuale e amore spirituale si intrecciano intersecandosi senza tregua. La descrizione
che ne sorte ha un che di sublime. Non c’è volgarità, sebbene le parole
mostrino tutta la carnalità dell’essere umano. Ciò che si sottolinea è la
felicità dei corpi e dell’animo: è la vita stessa che dona e si abbandona in un
viluppo di estremo edonismo, nel pieno piacere di ricevere ed elargire vicendevolmente
i propri corpi e la propria anima.
Il paragone col “Cantico dei Cantici”, attribuito come si sa
al re Salomone, viene, a questo punto, spontaneo. Sebbene, a mio avviso, al
testo di Manitta non posso ascrivere valori simbolici bensì filosofici. C’è
infatti un’iterazione di concetti che trascendono la semplice metafora. I termini
“ricchezza”, “onestà”, “felicità”, “bellezza” sono ripetuti, nel susseguissi
delle quartine, ben quattro volte ciascuno e all’inizio di ogni quartina, dando
risalto e valore a quello che di più prezioso l’uomo possiede. Qui il poeta
sembra voler uscire dalla narrazione e farci riflettere anche sull’attualità. Alla
fine, se è vero che la ricchezza è stata un fattore intrinseco alla visita
della regina di Saba, è pur vero che non è sufficiente, così come non sono
sufficienti la bellezza o la stessa onestà. È necessario amalgamare il tutto perché
solo in questo modo “la saggezza dell’uomo si misura nel vivere / distaccati
dal mondo e dalle emozioni” e “la saggezza d’una donna innamorata sta /
nel capire che tutto è finito”. Vale a dire è necessario possedere la
capacità di andare oltre la passione. Sembra quasi di ascoltare la filosofia di
Epicuro in questi ultimi versi che terminano con una descrizione disincantata, e
liricamente avvolgente, della natura.
“Canta / il vento una canzone triste alla partenza //
della carovana, piangono i cammelli e i cammellieri, / piange il suo cuore nell’ultimo
sospiro. / L’orizzonte che accoglie umidi albori / spegne nell’aria emozioni d’amore”.
Enea Biumi
martedì 20 giugno 2023
Enea Biumi, Sfulcìtt - Inganni, Lupi Editore 2022
Una raccolta in vernacolo, fatta di “riflessioni tra dubbi, asserzioni,
sogni”
Questa volta Enea Biumi, pseudonimo di Giuliano Mangano, scrittore, poeta,
intellettuale varesino, ci regala “Sfulcìtt”, che significa “inganni”:
un’intensa raccolta in vernacolo, fatta di “riflessioni tra dubbi, asserzioni,
sogni”, edita da Lupi editore nel 2022. Parte proprio da una libera traduzione
del “De Rerum Natura” lucreziano:
La vita l’è ‘na nòcc de tribuléri
e la cùur cumpàgn d’una saéta
La vita è una notte di affanni
e corre come una saetta
Si tratta di una raccolta molto esistenziale, che fa riferimento alla vita
vera, all’erlebnis, con espressioni che solo il dialetto può rendere, sia
perché era - e dico “era” - una lingua più vicina al popolo, alla saggezza
popolare, e non alla sapienza degli intellettuali, sia perché la vita cui si
riferisce era più semplice, più genuina. Peccato che il dialetto si sia perso
tra le giovani generazioni. Nel Sud è un po’ diverso, ancora si respira il
fascino delle tradizioni popolari, della lingua. Ogni paese ha una lingua
diversa, tradizioni diverse. Il dialetto reca con sé un patrimonio vastissimo
culturale orale, che rischia l’estinzione. Quest’assaggio di Enea ce ne può
rendere un minimo di sapore. E sapienza deriva da sapore: dà l’idea di
mangiare. Ricordate la metafora del profeta che divora i rotoli della Torah.
Dìsan che cunt un bòff de fantasia
Domenedìu l’avrìa fa ul mund
giüst in pòcch tèmp
Dicono che con un soffio di fantasia
Domineddio avrebbe creato il mondo
solo in poco tempo
Si tratta di uno di quei detti che la sapienza popolare ci offre dal suo scrigno
arcano di tesori, tesori che rimandano a quelle idee archetipiche
dell’inconscio collettivo junghiano. Dio, come diceva Eraclito, è un
fanciullino che gioca ai dadi. È l’oltreuomo per eccellenza di nietzschiana
memoria. Cristo è l’oltreuomo, colui che ha effettuato tutte le metamorfosi
(cammello, leone, bambino).
L’uomo è:
Anima biòta
tra bistùrni e stranzénn
slisàda in un cièl a tacùnn
Anima nuda
fra maldicenze e malocchio
consunta in un cielo a rattoppi
Notate come il vernacolo tende sempre alla rima, alla musicalità, al ritmo,
all’eufonia. Il dialetto è canzone, è armonia, è intuizione dello slancio
vitale bergsoniano che si tuffa nel tempo, il tempo dell’anima. Il mondo
contadino è fatto di credenze, di malocchi e di fatture, di quelle che noi chiamiamo
superstizioni, come se appartenessero agli uomini primitivi: ma in effetti -
diciamoci la verità! - anche noi ci crediamo. L’uomo contemporaneo crede ai
maghi più che mai, perché l’uomo stesso è impastato di fantasia, e di magia. La
vita è sogno, come dicono molti poeti e scrittori.
Leggere Enea è sempre bello, tanto più in questi versi, così stringenti,
attuali, e sentiti.
Vincenzo Capodiferro
martedì 2 maggio 2023
Prospero Antonio Cascini – Prospero Valerio Cascini, Lucanità saracena tra poesia e fotografia, Monetti Editore, 2022
La terra in cui si nasce è come una madre. Ce lo insegna
il Foscolo in quel prezioso sonetto che inizia con “né più mai toccherò le
sacre sponde”. Ed oltre ad essere
madre è anche sacra. Questi due termini di maternità e sacralità ben si
addicono al volume “Lucanità saracena” di Prospero Antonio Cascini e
Prospero Valerio Cascini. Non si tratta, notate bene, di una semplice e scontata
linea encomiastica, come di solito avviene nella descrizione e rievocazione di
un passato felice in un luogo idilliaco, soprattutto là dove si innesca il
vernacolo o il vissuto in città lontane da quella natia. Si tratta bensì di un
ritratto, amorevole certo ma non sdolcinato, in fotografie e poesie di
Castelsaraceno. La responsabilità dell’impresa è dovuta a due cugini, Prospero
Antonio Cascini e Prospero Valerio Cascini che si sono impegnati a raffigurare
una civiltà antica proiettata nel futuro, una civiltà fatta di bellezza e
tradizione, di passione e di memoria, di realtà e poesia. D’altra parte i due
autori non sono nuovi ad operazioni di tal genere. L’uno, Prospero Antonio, ha
nel proprio curriculum volumi e premi di poesia, l’altro, Valerio Prospero,
vanta raccolte in vernacolo premiate e celebrate. Entrambi i poeti hanno la capacità
di saper intrattenere il lettore e condurlo ad emozioni e riflessioni
attraverso una versificazione che non si avvale di orpelli retorici ma
si aiuta di icasticità e sensibilità. Un piccolo esempio è la lirica “La
lucanità saracena” di Prospero Antonio. Notate il suo incipit accattivante:
“Dormirci sopra
in un anfratto innevato
tra un cirro argentato
e un bucaneve imbalsamato”
La lirica poi prosegue nell’evocazione amorevole e
sincera del suo Paese dove “pendono nelle toppe le grosse chiavi / dei
palazzi antichi”, dove “è il sogno di ognuno / che lascia il segno… /
sul proprio selciato”.
Non meno incisiva è la lirica di Valerio Prospero, tutta
legata ai suoni dialettali che sono un segno di ancestralità e di passione e
che rievocano momenti topici della vita a Castelsaraceno (dalle feste
religiose, come il Natale, ai gesti quotidiani come la compra vendita al
mercato, o a figure tipiche del posto come commà ‘Ndumeta o Filice u Sinisaro).
Nulla, come in precedenza sottolineato, di regionalismo encomiastico, ma
momenti di vera ed autentica poesia esaltati dalla musicalità di un patois
lucano saraceno, come ben delineato in questa lirica dal titolo “Puhisia”
(Poesia)
“Fammila na puhisia e ch’ t’ costa.
Parole ‘mbastate ca parole a bella posta.
Ca nu sbendano a l’aria pi fa sputa,
ch’arrivano d’rett’ addun’ so’ binut’.
Rammila na puhisia
a voglio tene ‘ndu portafoglio
cum’ fosse a zita.
Parole ‘mbastate cu parole
pi tutt’ a vita.”
(Fammela una poesia e cosa ti costa. / Parole
impastate con parole a bella posta, / che non siano insulse tanto per parlare /
ma che arrivino dritto al cuore che le fece andare. / Dammela una poesia, / la
voglio tenere nel portafogli / come una sposa. / Parole impastate con parole /
per tutta la vita.)
Enea Biumi
lunedì 1 maggio 2023
Gianfranco Galante, Stati d’animo (e complici emozioni), Scriptores, Varese, 2023
Con questa
nuova raccolta di poesie dal significativo titolo “Stati d’animo” l’Autore
prosegue quel percorso lirico intrapreso tanti anni fa e che ha prodotto
sillogi quali “Di tal bellezza” o “Il pensiero soffia ancora”. Siamo
dunque di fronte ad una rielaborazione interiore che non ha interruzioni di
tempo ma senza soluzione di continuità offre al lettore le più varie
impressioni di un viaggio tutto spirituale, originale ed intellettivo. In
effetti, alcuni momenti di materialità sono presenti nel testo, ma si
accompagnano sempre a riflessioni o ad emozioni (come sta scritto nel
sottotitolo) che appaiono come complici perché seducono e affascinano.
Lo stile, o
come s’usa in certi casi dire, la penna è la stessa, ma cambia la prospettiva,
un po’ per l’età (Galante ha iniziato la sua scrittura poetica in età giovanile
- 1988) un po’ per le nuove esperienze che subentrano e spesso mutano animo e
sentimenti. Ça va sans dire che la capacità esaminatrice dell’Autore si
fa più raffinata e meticolosa. Il metro, rimanendo sempre sul cantabile dolce,
ha una sua struttura rigorosa né si abbassa a compromessi accattivanti, mentre
il contenuto si eleva a decifrazioni per nulla usuali o scontate.
“Sul mare d’ottobre
l’onda frange a
prua
e invita il
pensiero
a pace interiore.
Galleggia qui il
senso,
cullato e
graziato
con fare gentile
sull’onda del
mare”
In tal modo la natura assurge a
protagonista e si allinea a vicende personali squarciando quel velo che a volte
un Autore pone tra sé e il lettore ed identificando ipso facto quegli
stati d’animo che si abbinano, verso dopo verso, in un alternarsi di
meditazioni ed emozioni che calamitano su di sé l’attenzione e la commozione. Si
tratta in fondo della vita, in ogni suo aspetto in ogni suo fondamento. Là dove
l’unicità impone la sua comprensione per rendere più visibile ciò che ci
circonda, come un drone che si innalza alto su di noi per filmare le cose e
renderci più partecipi della bellezza e della fortuna di ciò che ci è dato.
“Stasera respiro
poesia;
il giorno depone,
il sole sui clivi
illumina al rosso,
allunga le ombre
e trafigge il mio
cuore”
Se poi si desidera un approfondimento
maggiore, si può constatare che un elemento prevale su tutto: ed è l’amore, in
ogni sua forma (fraterno, amicale, matrimoniale). Un amore mai banalizzato ma
nobilitato, un amore di cui soprattutto al giorno d’oggi se ne sente la
mancanza, un amore trascendente la pura corporeità.
“C’è un amore che
non c’è
Ma che vive
dentro me;
c’è un cuor che
so dov’è
e che sa che
amore è”
Enea Biumi
sabato 18 marzo 2023
Adelio Fusé “Mosaico del viandante” (Book Editore, 2023)
C’è molto di
concreto a cui si può credere già nell’apertura: lo sgocciolio, la pendola, il
cartello, i chiodi, dove i dettagli emergono esprimenti; impongono
l’ammiccamento riconoscibile adatto a farsi viatico all’insorgere di un tempo
quale unità estatica; inoltre “placido e verticale si soddisfa/ il vostro
cielomare”. E’ “Mosaico del viandante”, esito testuale di Adelio Fusé, a
giudizio di chi scrive, una delle voci più significative della poesia italiana
contemporanea definibile “di ricerca”. Qui s’intende sviluppare un diario in
seconda persona singolare, dove però l’io e il tu sono profondamente
intrecciati in un connubio che esplora in atto il filo conduttore temporale
attraverso osservazioni del presente e recuperi dal passato in una sequenza
cronologica sovvertita che annulla le distanze e colma gli iati. Fusé riesce a
costruire sulla pagina composizioni nelle quali la solidità e l’efficacia
profonda delle strofe e dei versi offrono peculiari opzioni imprevedibili nella
sapiente tenuta della tempistica stessa di versificazione, quasi una partitura
complessa capace di avvistamenti evocativi e stratificazioni analitiche, “il
rito di una sola volta/ la sua custode/ e nel segreto che ti rimane/ ti
attardi”; quasi un’epoca di echi che si propaga, un effetto di variazioni che
si distinguono in cromatiche ed acustiche, una determinazione che include il
coinvolgimento di luoghi che dimensionano misurazioni emotive e pertinenze
dialettiche, incisioni occasionali ed episodi reclusi, attinenze all’uscita
dagli svaghi nel ripristino lucido di un sentire sempre ubiquo: “ti riacciuffi
a vent’anni con chi tu sai/ in una specie di notte perno/ da Montmartre
planando sopra le luci/ di un cielo capovolto:/ il futuro emanava bagliori/ di
sicura veggenza”. L’attimo recuperato dall’autore è evento reinterpretato alla
luce delle vivificazioni frammentate e conduce verso l’esprimibile continuo
della curva, figura appagante lo sviluppo appartato della direzione. Nella
traiettoria dei versi non si esclude il possibile avvistamento dell’archè dei
presocratici, il principio che determina l’individuazione di un’origine qui non
dichiaratamente ammessa ma incombente nella stessa vocazione insita nel rinnovo
dei moti, nel tracciato disegnato dalle vibrazioni dei termini. Adelio Fusé accosta
la sensibilità del quesito alla fragilità dell’apparenza, tenendo costante il
movimento o mutamento all’indirizzo del punto di domanda, quando la
persistente preparazione del segno
comunica, con straordinaria perizia, la porosità consonantica della tessitura:
“eco di conchiglia che si propaga/ condotto che non tace e tracima”. C’è un
varco accolto che periodizza l’esito possibile, nel portendere un itinerario
conoscitivo tale da dirsi anabasi per le molte implicazioni che sanno però
sempre, nella tecnica dell’autore, darsi efficaci episodi letterali di una
qualità dinamica sul piano che costruisce il rapporto costante di significante/
significato. Il mosaico incide, nella vocazione culturale dell’autore, quasi
potesse trasmettere una forte sensazione di anelito all’incontro,
all’avvistamento che è bisogno, medicamento per le ferite del vagare. Si
percepiscono spazi aperti e dimensioni fisiche tra i versi, tentativi adulti di
condensare la risposta interpretativa all’insinuarsi ardente delle assuefazioni.
Ma anche cantieri e luoghi urbani determinano una topografia del percepibile:
“concentra vita arruffata il parcheggio h 24/ e il maratoneta delle ere lì
s’infiltra”; la mossa del viandante diventa allora voce di narrazione,
distribuzione di accenni che praticano storie, e storie di elementi che si
fanno profili. Sostanza, qualità, quantità, relazione, luogo, tempo, stare,
avere, agire, patire...sembrano cogliersi tutte, le categorie aristoteliche,
tra le vicissitudini dei versi, nell’afflato conoscitivo che li anima e che li
rende via via più dicibili e narranti. Gli eventi collettivi drammatici si
confrontano con i ricordi personali lieti in un intreccio temporale che si fa
mite e catartico; sospende il giudizio intonando una tonalità piana, evocativa
dove “là nel punto d’immissione otterrai/ il crocevia delle correnti”. Il
viandante è tale in sintonia con un tempo interpretabile, e a tutto ciò
alludono i riferimenti a Machado, Eliot, Saramago; nella costante attenzione
che libera dalla morte, evolve verso la predisposizione all’ascolto mimetico,
all’astrazione filtrante. Adelio Fusé rimuove le scorie del dettato statico, le
rinnova e depura in un procedere interrogativo e pensoso che determina l’avvio
del meccanismo linguistico, tessendo i collegamenti grafici di una scrittura
che “aspiri alla meraviglia/ che sia nostalgia/ a incorrotte avvisaglie”.
Andrea Rompianesi
domenica 12 marzo 2023
Laura Caccia “La terza pagina” - Book Editore, 2023
Possiamo osare
scrivere di felicità? Solo parlando dal limite, forse, dalla frontiera. Allora
dovrà costituirsi lo spazio della pagina; dove si compiono i riti inesausti di
strappo e sedimentazione, fecondazione e ferita. Dove il pensiero poetante
insorge, ponendo la radicalità del tracciato e del verso. Parti del foglio,
seduzione binaria al cospetto degli elementi. Un avvio che apre a “La terza
pagina”, opera poetica di Laura Caccia, esemplare esito testuale che propone
un’architettura del verso davvero preziosa. La scrittura qui osa tendere alle
radici lessicali, costruendo una figurazione sapiente di rara maestria tecnica.
Ogni singolo esito scritturale coniuga una prima parte costituita da una
versificazione per lo più in due strofe brevi, a cui fa seguito un passo che
potremmo definire in prosa poetica, sviluppato in una formula orizzontale che
utilizza l’interpunzione dello slash nei casi in cui è invece la prima parte a
comporre un andamento prosastico. Laura Caccia evoca gli esseri felici
descritti da Maria Zambrano, coloro che sanno superare i contrasti, le
antinomie tra ragione e passione; sapendo che proprio la Zambrano si avvaleva
di categorie specificamente agostiniane, come bene osservava, a suo tempo,
Giuseppina Rando. Si cerca una terza pagina, allora, assente ma intuibile,
perfino necessaria. E i tralci diventano versi, accenni di prologo come
antivoce, contatto in bilico sul tempo, resti di un’epoca nell’avvolgente
brusìo che si fa esodo, traccia, quasi equivoco, ma di una potenzialità evocativa
aperta all’oltre. Diaspora è il passato, “fino a dove la parola/ era caos che
non ha finito di/ scrivere il proprio/ nome né provare a voltarsi/ a specchio
ustorio”; debilitano allora gli esterni “soprusi di senso”, atteggiano alla
interposta persona, verso una puntualità ricevibile di cura. E la cura, per
Laura Caccia, si trasforma in definizione strutturale della composizione nel
suo proporre l’iniziale verticalismo dei versi innestati nella base a tessitura
orizzontale, epicentro di condensazione episodica. I sussurri di vento, le
tramature di luce sono tante e tali da portare dove “a metà di dissensi
antisensi/ alla deriva ad un passo dal mondo/ si esiliano i nomi/ noi esiliati
per primi/ eppure un nome non mente/ tiene a mente il nulla la luce”. La scrittura
si fa viatico dentro la corposità di elementi e frammenti, tonalità e
ricognizioni, ingorghi e braci, solchi e fondali. Le pensose articolazioni dei
fonemi concedono un controcanto dicibile e avvolgente, dove il gesto rimanda
alla dicitura capace di esplicitare nitidamente la parola esatta. Sembra di
cogliere eco della voce di Friedrich Creuzer quando affermava che la natura
parla all’uomo attraverso i segni, tali da essere percepibili solo da quanti li
conoscono. Esprimendo la necessità, quindi, d’individuare quel codice profondo
che concede l’opzione del passo, l’intuizione del tracciato. Ma avvalorando
anche le inestinguibili fragilità delle percezioni che declinano l’usurante
passività delle mancanze. Davvero qui la pagina è sciame; conduce alla
possibile verifica di un itinerario esperto che “precipita dove manca/ la voce
in grembo ancora”, e l’episodio costruisce l’avanzata delle ipotesi,
l’irrimediabile esitazione di fronte alla conduzione del margine, della nota,
della posizione acquisita dalla difesa speculativa verso l’evidenza di un
concettualismo materico che veicola il pensiero. E il pensiero, nell’opera di
Laura Caccia, si fa poesia che abita la pagina, quella terza, forse, invocata,
cercata, esposta alle ferite, diurna e notturna allo stesso tempo, episodica e
globale, condotta e sospesa, vulnerabile e intatta, esaustiva e incompiuta, “un
malcelato amore/ quasi una leggerezza irrisolta”; i rischi esondano, le domande
intensificano con insistenza la loro prestanza, accudiscono il timore e
accendono l’indirizzo dello sguardo e dell’ascolto, improvvisano rimandi e
tentazioni, stimoli che sembrano affrettarsi verso una meta, “raccogliere
questo suono inavvertito che si tuffa a precipizio”; tutto assume una pratica
ancestrale attraverso l’osservazione del dettaglio, del particolare che
s’innesta nel dedalo del contingente, poiché l’evento è il farsi della poesia
nella sua scansione, dove “il foglio ci somiglia” come l’abluzione artata ma
cedevole nell’insonne turbamento, oltre le fedeltà abrasive, nell’inattesa
rifrazione insaputa, nelle feste feriali, nelle seduzioni innocenti, in quella
terza pagina ad esito dialettico che risuona perché l’insieme diviene poesia e
la poesia, come scriveva Novalis, è il reale, il reale veramente assoluto. Quanto
più poetico, tanto più vero.
Andrea Rompianesi
L'ANIMA nella Poesia di Prospero Cascini fotografata attraverso la PROPRIA, a cura di Salvatore Monetti
La poesia, in molte delle sue forme, è molto più di un semplice esercizio linguistico o di un passatempo estetico. Essa è da meditazione. ...
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