sabato 25 gennaio 2025

Laura Caccia “Le voci insorte” (Book Editore, 2024)


Parla di voci la citazione da Paul Celan che caratterizza l’esito poetico di Laura Caccia, “Le voci insorte”. Qui siamo posti di fronte, innanzitutto, al complesso e ricco rigore formale che determina sempre tutta la qualità stilistica dell’opera poetica dell’autrice. Laura Caccia si adopera per abitare lo spazio della pagina in formule attinenti ad un approfondimento non solo fonetico ma anche specificamente visivo nell’architettura testuale. E’ un procedere davvero “a corda di vento”, oltre indefinibile nulla, attraverso sussurri che divengono ombre a confronto con l’insinuarsi lucido di stati d’animo in attesa, nello scavo continuo verso la presa d’atto minata dai percepiti residui di una partitura composita e in bilico tra caduta e salvezza. La sezione iniziale confida in una strutturale compattezza di poesie in forma di poemetto prosastico a decrittare l’evolversi lento dei possibili esoneri; come l’evidenza solcante il terreno accidentato delle ancorate condivisioni. Non c’è arpeggio disadorno ma confronto esprimente il farsi non ladra di sabbia, per citare Margherita Sergardi, ma “farsi ladra di suoni tutta la notte a fuoco d’inferi spifferi/ non darsi pace e niente la schiena attorno al suo orizzonte””. Le voci sono tutte e nessuna; ritornano trasformate in venti, in stirpi canore, in azzurri e varchi, sbavature inerti, sillabe e appunti, soccorsi che rievocano accostamenti imprevisti, frammenti nominali paratattici, riporti di episodicità minimale ma svelante. La scrittura di Laura Caccia, magistrale per tenuta, concede già nella seconda sezione, l’aprirsi di una tessitura che si dilata graficamente sulla pagina a voce esplicita in versi asimmetrici e spazialità divaricanti le tracciature stesse nella più attenta estensione. C’è allora un tentativo di sintattico diradamento che comporta e include la possibilità di movimento nel testo, quasi un’applicata opzione di concretizzare l’uso della pausa grafica in accezione sospensiva. Così “cresce sui rami la voce che era/ nostra sfiora marzo e mani i loro suoni // mortali a dissipare a ogni angolo di strada” quali sviluppi restii a mostrarsi senza prima tentare di colmare almeno nella parola esatta le distanze e le notti che Laura Caccia definisce “contromano”. Una sintassi del travaglio procede e delimita il perimetro dell’esprimibile, là dove ogni confine è indicazione di ciò che a quel confine sta oltre, tanto che l’estrema varietà di forme strutturali fa sì che il testo possa assemblare trabeazioni felicemente efficaci, disegnate sempre in una misura complessa e articolata. Forse una sintassi avvolta dall’insidia di uno scavato immanentismo che si concentra sull’opzione filtrante il reale; un reale pensato non nel dato stesso ma nella sua interpretazione come “ogni etimo muto” od “ogni pausa sfollata”, a porre l’attento distinguere le peculiarità materiche alla foce degli enigmi e delle forre, tra crepe e figure, corpi e tracce, bordi e archi, l’assiduo e compreso desiderare quale passaggio “nel tempo debole/ quotidiano neppure il vizio a fondale una parola/ potrebbe e ciascun brandello”. A’ rebours, davvero, rivisitando i passi in sezioni strutturate secondo schemi testuali sempre diversi, inseriti in una prospettiva che compie il tracciato conoscitivo attraverso la composizione strofica ad estensione e contrazione, come possibili eventi capaci di scandire osservazioni, ipotesi, ritorni “tra le periferie degli occhi/ sonnambuli nei/ turni delle notti al guado”, anche “nel sangue tra cronache di oppressi”. Ci sono strofe a forma di terzina o quartina irregolari poste a specchio asimmetrico con accenni di distici, quasi uno scalare e porsi nella successione di nomi di natura in una composizione panica: “tutti i mattini i pensieri/ screpolati non è/ il primo nome che si fa parola” quando poi “ogni crepa d’alba/ in contumacia pone un freno/ al suo esondare// nel farsi chiaroscuro che/ slabbra l’approssimare della luce/ agli orli delle cose”, con inoltre ritorni di parole chiave. Aspetti che riguardano una particolare qualità di equilibrio; “perché un corpo sia stabile è necessario che abbia almeno tre punti d’appoggio che non si trovano in linea retta” scrive Thomas Bernhard nel suo “Correzione”, e allora gli appoggi saranno in una base testuale che diviene ogni volta esito composito di progetto, determinazioni che la parola traccia in una formula espressiva che continuamente insorge. L’esperienza assidua si dimensiona anche nella conduzione dei segni grafici: “/ ospita a rovescio il suo migrare mondano /” e lo slash interviene a comporre ulteriori confini che aprono al dopo. O ancora la sorte, l’inquieto destarsi del dire “come è potuto accadere che ci siano cose/ a cui non abbiamo dato voce”; oppure le ceneri che si strutturano in compatti blocchi linguistici quali possono essere i brani in prosa poetica o poemetti in prosa che mantengono sempre una consistenza ritmica. Il lavoro di Laura Caccia si chiude poi come una fioritura di mappe inesauste, similari a teorie di note in partitura evocanti il nostro esserci contemplato e combattuto, “dove insiste è poco dire/ un tale irriparo che a farne nido niente è metafora”, attraverso quella “musicalità” che non ha nulla da spartire, per citare ancora Celan, con quella “melodiosità” più o meno imperturbata.

                                                                  Andrea Rompianesi


 

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