sabato 11 gennaio 2020

Paolo Rattazzi - Poeta e studioso del dialetto varesino


Premessa
 
 Così Paolo Rattazzi si autopresentava nell’Antologia poetica “I stràa d’ra Puesìa”, edita nel 2012 a cura del Cenacolo dei Poeti e Prosatori Dialettali Varesini e Varesotti, che conteneva le liriche di tutti i componenti del Cenacolo stesso: “La mia origine è costituita da due identità etniche: piemontese da parte di padre e lombarda da parte di madre. Nato a Milano nel 1922, e precisamente in Corso Ticinese, nei pressi delle famose "Colonne di S Lorenzo": una particolarità che mi identifica quale milanese DOC a tutti gli effetti. Orfano di padre in tenerissima età ebbi, pertanto, un'infanzia tribolatissima.
Dopo varie vicissitudini, giunsi ad abitare definitivamente a Bobbiate, all'età di otto anni all'incirca, ove mia madre si risposò ed ebbi finalmente anch'io un padre, anche se putativo, che mi crebbe nel migliore dei modi...
Durante il periodo militare, concomitante con quello bellico, la situazione in Italia peggiorò a tal punto che mi vidi costretto ad emigrare in Svizzera, ove rimasi dal 1943 al 1945; tale costrizione mi impedì, pertanto, il proseguimento degli studi superiori. Rientrato in Italia, trovai lavoro presso l'Automobile Club dove prestai servizio sino alla pensione.
Sposato, ebbi tre figli (uno dei quali deceduto presto) che mi diedero la gioia di avere dei nipotini: Lara, Greta e Alessio. Per alcuni anni ho praticato l'hobby della pittura e, dal 1980, faccio parte del "Cenacolo dei poeti dialettali" divertendomi a scrivere poesie in vernacolo "Bosino" con sufficiente risultato. Ora, novantenne, "püssée da là che da chi" attendo sereno il "Gran traghettator Caronte", a "trapassar lo rio".
Ora che il rio lo ha trapassato, purtroppo, ma è il destino, spero che questo ricordo di uomo e di poeta gli renda omaggio delle sue capacità artistiche e della sua grande umanità, di modo che la memoria che ne scaturisce sia non solo stimolo ma esempio per coloro che ne seguiranno le orme e lo studieranno.

 Il Poeta

 La poesia di Paolo Rattazzi è genuina e delicata. Genuina perché i suoi versi descrivono situazioni e fatti senza sovrastrutture ridondanti. Delicata perché il linguaggio adottato risulta sostanzialmente antiretorico e per questo leggibile e comprensibile nell’immediato.  Se metafore ci sono, queste si integrano perfettamente al pensiero del poeta e ne fanno un unicum che trascina il lettore, lo coinvolge, lo emoziona.
I suoi versi sostengono e danno ragione, infatti, al pensiero di chi afferma che non esista una poesia dialettale e una in lingua, ma vi sia la poesia, tout court, quando questa è valida ed abbia la capacità di raccontare se stessa o il poeta o la vita.
Per questa sua capacità poetica riesce ad aggiudicarsi vari premi di poesia, fra cui il principale per un varesino, e cioè il Poeta Bosino dell’anno, segnando un primo posto nel 1980 e nel 2003 (con rispettivamente le liriche: Un gutiin d’acqua saràa  e Ul nostar lagh), un secondo posto nel 1979 e nel 2001 (con le liriche: Parla on Garibaldin e Pagin du la memoria), un terzo posto nel 1981, 1987, 1989, 1990, 2007 (con: Tera, Parlan i fiur, Un camisell da lana, Un crespin da memori, Scampul da serèen).
Ed è ancora l’amore per la poesia che gli permette di poter incastonare in un dipinto i suoi versi all’ingresso di Boarezzo su uno degli scorci più belli del paese. Accanto alla lirica si può notare la raffigurazione di una gerla rovesciata con un rastrello come se volesse rappresentare la fine della civiltà contadina.(*)
La sua opera è di un’apparente semplicità. Ma non lasciamoci trarre in inganno da facili acquisizioni. Semplicità non significa semplicismo. In effetti la scaturigine della sua lirica trae spunto da uno studio appassionato e approfondito della materia. Lo stanno a dimostrare le pagine condotte sulla scrittura dialettale che non nascono per caso, ma sono frutto di una intelligente e sincera rielaborazione il cui scopo era quello di dotare anche il “bosino” di una sua unitaria peculiarità.

 Lo studioso di dialetto

 In alcuni appunti, destinati al Cenacolo dei Poeti e dei prosatori Varesini e Varesotti, Paolo Rattazzi presenta le sue riflessioni sul dialetto varesino sostenendo che il suo studio vuole essere un tentativo “di dare alla grafia dialettale (varesina) un assetto unitario e, nello stesso tempo, di aggiornare la conoscenza della meccanica poetica.” Prosegue poi, quasi a scusarsi della sua ‘presunzione’: “mi permetto, sia ben chiaro, senza alcuna pretesa d'essere in assoluto il più adatto a tale iniziativa, di sottoporre, con questo mio atteggiamento propositivo a tutti coloro che hanno a cuore il nostro dialetto, una sintesi di applicazioni grafo-foniche ormai in uso in tutto il Comasco e nel Milanese (anche se, per quest'ultimo vi sono ancora residue resistenze).”
Il Poeta chiede la collaborazione di tutti, ed in particolare dei componenti il Cenacolo, per giungere forse “ad una espressione grafica uniforme in tutto il Varesotto, la quale, non potrà che migliorare la nostra immagine e consentirci di uscire dall’attuale stato di  caos” che contraddistingue ancora oggi la multiforme grafia delle nostre composizioni (…) Non sono certamente la persona più adatta per pretendere di allestire un prontuario infallibile di didattica linguistica dialettale, ma consentitemi almeno di dare con queste poche note allegate il mio modesto contributo per un tentativo di riassettare in modo positivo un campo così flagellato da turbe grafiche che mandano spesso in “tilt” anche i più agguerriti emisferi cerebrali di coloro che malauguratamente ci leggono”.(**)
Il suo studio si accentra prevalentemente sulle primarie nozioni fondamentali e basilari di una lingua: la fonetica, la grafia, gli accenti, i gruppi consonantici, l’uso del pronome che, e via dicendo.
Quindi, non solo poeta il Nostro, ma anche appassionato studioso di un sistema linguistico (il dialetto) da sistemare scientificamente per una migliore fruizione.
 
Enea Biumi

NOTE
(**) Ecco due esempi di quello studio.

A - Oltre ai suoni indicati nella precedente tavola fonico-vocalica (pag. 3), c’è da notare che il dialetto lombardo (specie il bosino), nasalizza l’ultima vocale tonica quando è seguita dalla consonante n. Una inusitata fonia, che non si riscontra né nella lingua italiana né in altre lingue straniere più conosciute. Da ciò ne consegue naturalmente una difficoltosa didattica relativa. Tale suono non viene emesso come di consueto interamente dall’orbita boccale, bensì è un suono effuso a mezzo servizio tra 1a bocca e i condotti ellittici del naso (coane), per cui si viene a determinare un suono misto tra naso e gola che viene indicato con il termine di nasalizzazione. Pertanto, le vocali: a-e-i-o-u-ö-ü-  seguite dalla consonante n si nasalizzano se 1a vocale finale è tonica. Esempio: cartùn. Se invece 1a vocale finale è atona non si nasalizza. Esempio: àsan”

B - “Per quanto riguarda l’accento, dobbiamo assolutamente migliorare e non apporlo così, a lume di naso. Tenere presente che:
1)  L’accento tonico (in italiano) va sempre messo sulle vocali delle parole tronche (ossitone), sdrucciole (terz’ultima sillaba), bisdrucciole ( quart’ultima sillaba) e così, penso, si debba operare anche in dialetto.
2)  Sulle vocali delle parole piane (ultima sillaba e penultima vocale) 1'accento non si mette mai, fatto salvo il caso in cui il suono debba essere necessariamente rimarcato, specie in parole dialettali non derivate dall’italiano. Esempio: Peltréra = Parte alta della credenza in cucina nella quale venivano esposte le suppellettili di peltro.
Sempre nell’intento di migliorare 1a grafia delle nostre composizioni e quindi di essere  letti in maniera comprensibile, un punto mi lascia dubbioso: quello se applicare l’accento anche su parole piane 1a cui vocale nella lingua letteraria italiana si legge con suono aperto, come  nella parola argènto, mentre nella parlata corrente si pronuncia argénto con suono chiuso e in dialetto si pronuncia argènt con suono aperto. Lo dobbiamo o non lo dobbiamo mettere quest’ultimo accento?
3) In italiano “va” e “sa”, quando sono voci verbali, non si accentano mai. Nel nostro caso, però, trattandosi di dialetto nel quale esistono pure “va” e “sa” corrispondenti ai pronomi italiani “si” e “vi” penso sia più corretto accentarle entrambe.
Esempio: 1'è 'na roba ca sa sà (è una cosa che si sa);1'è 'na storia ca va và? (è una storia che vi va?)
4) L' aggettivo possessivo italiano MIO fa in dialetto “ME” (senza accento). Esempio: ul me pà (mio padre). TUO fa TO (senza accento). Esempio: ul to pà (tuo padre) TU fa Ti (senza accento). Es. tra mi e ti (tra me e te) LUI fa Lü (per 1a pronuncia della ü vedi pag. 3). Esempio: 1’è stai lü (è stato lui)”

 

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