Rebus
è il soprannome che gli amici del Caffè avevano affibbiato a Vito Donato, un
sarto di Gallarate, dopo che questi aveva preconizzato che l’Italia nel 1911 avrebbe
dichiarato guerra alla Turchia. Ma rebus è anche la vicenda, complicata
da districare, e che mano a mano va chiarendosi e finalmente risolvendosi,
attorno ad una finanziera abbandonata nel retrobottega della sartoria dello
stesso Rebus. E naturalmente è il medesimo Rebus che assolve il
compito di detective accorto e minuzioso, per nulla intimorito da protagonisti
politicanti ed economicamente facoltosi: insomma la crème gallaratese
dei primi del novecento, affiancata e infiltrata da ambienti malavitosi. Ma da
dove nasce la curiosità e per dir così il desiderio di investigare di Vito? Gli
autori ci fanno sapere fin dalle prime pagine che Rebus è figlio di un
carabiniere, da cui si intuisce che la sua predisposizione ad inquisire è
innata e le sue abilità di zerozerosette sono dovute alla vicinanza con la
militanza del padre, di origini messinesi, costretto a girovagare per un po’ di
tempo da una parte all’altra dell’Italia e stabilitosi alla fine a Gallarate,
quasi in Svizzera. Quel quasi in Svizzera lo sottolineano gli autori
stessi dimostrandosi abili narratori in quanto trasmettono ai lettori, con nonchalance,
direi, la mentalità di un povero carabiniere meridionale che dopo varie
peripezie si ritrova a posizionarsi in una Stazione periferica d’Italia
vicinissima al confine. Una prova di erlebte rede quasi in sordina che testimonia
già da subito capacità e affinità letterarie.
La
trama è quella tipica di un giallo che si gioca attorno al ritrovamento di una finanziera
e che incuriosisce da subito il protagonista indiscusso, Rebus, fino a
condurlo alla soluzione del caso in un intrìco di situazioni e personaggi che
determinano i contorni della storia e la arricchiscono indubbiamente di
sottolineature e sfumature che vanno al di là del racconto in sé e per sé, la
cosiddetta fabula, per dilatarsi nell’esame psicologico, storico e sociale
della narrazione. Bandera e Forni, allora, ci trasportano in un milieu,
sicuramente lontano dal nostro quotidiano, ma ben delineato ed evidenziato da
una geografia e da una ricostruzione storico ambientale tale da condurre il
lettore attraverso atmosfere dimenticate e tuttavia presenti in documenti,
documentari, relazioni, musiche e qualche filmato d’epoca. E, per chi è più
anziano, il ricordo di qualche racconto dei propri nonni rivivrà, sicuramente,
in queste pagine che non danno vita solo alla curiosità di conoscere come va
a finire, bensì a individui realisticamente registrati e colti nelle loro attività.
Va da sé che quei modi d’essere e di proporsi caratterizzano un mondo
specificatamente provinciale, periferico, in una cittadina, ai tempi, relativamente
campagnola, sebbene dotata di servizi che oggi chiameremmo d’avanguardia, in
cui la lingua principale era ancora il dialetto, le abitudini si dimostravano ancora
collettive, così come ancora vigevano al di sopra di tutti le principali
autorità: sindaco, prete, maestra, carabiniere. Assai interessante è la
coralità che ne sorte con la descrizione degli avventori del Caffè, del cortile
che immaginiamo al centro di case di ringhiera e teatro di vari pettegolezzi,
il ballo di fine settimana il ritrovo sistematico degli uomini al Caffè. L’atmosfera
ed il colore di quel periodo viene offerta anche da particolari come il
calessino, il baciamano, l’auto velocissima che sfiora i cento all’ora (e qui
viene alla mente Marinetti ed il suo futurismo esaltante il movimento e la
modernità), gli abiti fin de siècle, femminili e maschili, come la finanziera.
Ma non è tutto. Perché in questo clima di belle époque vengono rimarcate
pure le contraddizioni. Infatti alcuni protagonisti sono costretti a subire le
umiliazioni di una indigenza che li porta ai margini della società (oggi si
direbbe borderline) che pure li sfrutta, li umilia e quasi li dimentica
o addirittura li condanna solo per la loro povertà.
Accanto
a questo riquadro storico-sociale i personaggi vengono rappresentati in una
ipotiposi che li rende reali come se uscissero dalle pagine del romanzo per
presentarsi a noi vivaci e veritieri, pronti a colloquiare e a discutere col
lettore. A determinare questa suggestiva percezione è il dialetto che aleggia
qua e là, attraverso dialoghi e interrogativi, e che apporta colore e realismo.
Il fascino di questo giallo, oltre all’intreccio che non dà un attimo di
respiro al lettore, sta appunto nella rappresentazione plastica e iconica dei
protagonisti immersi in una Gallarate che nasconde segreti di prepotenza, di
prevaricazione, enigmi non sempre di facile estricazione, truffe, strozzinaggi,
nonché omicidi mascherati da suicidio. È la Gallarate noir, celata ai
più, ma individuata dall’abile Rebus che, coadiuvato dall’apporto dell’amico
maresciallo Rosario Cartabellotta e dagli altrettanto amici Pierin Bell,
Peppino Colombo, Cesare Lovati, Giacomo Rovetta, fra gli altri, riesce a
portare a termine le sue indagini e a far arrestare i colpevoli. Ed è
naturalmente il lato più oscuro della cittadina che, per il resto, ha una sua
peculiarità di sapore periferico e tranquillo. Il tutto immerso in una nota circostanziata
di colore rosa: l’amore per Angela che, nonostante le indagini, Vito non
trascurerà mai di seguire ed amare, e che gli autori, conseguentemente,
accompagneranno fino all’ultima pagina dove lo sublimeranno definitivamente. “[Angela]
gli mise una mano dietro la nuca, lo avvicinò a sé e lo baciò sulla bocca. Pochi
secondi, poi si staccò e lo guardò ridendo. «Ecco… adesso puoi parlare.»”
Enea Biumi
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