martedì 11 agosto 2020

VERNICE, anno XXVI, n° 58, Genesi Editrice, Torino, 2020, €. 20,00



E’ uscito il numero 58 della rivista di Letteratura “Vernice” edito dall’editrice Genesi di Torino. In copertina l’immagine della poetessa Chicca Morone che, intervistata da Sandro Gros-Pietro e Antonio Miredi, offre una panoramica sul Convivio delle Muse che rivive nell’attualità. Da Clio a Talia, da Urania a Calliope, da Euterpe ad Erato, vengono coniugate le varie personalità mitiche ritrovabili in ogni donna e riconducibili alla stessa poetessa che confessa: “interpretare il mio percorso attraverso le Muse mi sembra un gioco abbastanza divertente”.
Interessante risulta pure il contributo alla conoscenza del grande critico letterario Giorgio Barberi Squarotti, scomparso il 9 aprile del 2017, del quale la casa editrice torinese Genesi ha pubblicato l’antologia poetica “Dialogo infinito”.
Scorrendo l’indice si scoprono, tra gli altri, poeti come Serena Siniscalco, Mino De Blasio, Bruno Civardi, Ada de Judicibus Lisena, Mario Santagostini, nonché la rubrica “Rompete le righe” di Fabrizio Olivero. Non mancano interventi di saggi letterari da parte di personaggi dal calibro di Carlo Di Lieto, Claudio Giacchino, Franco Zoja.
La rivista si trova nelle principali Librerie di tutta Italia.



Enea Biumi

Livio Bottani, La memoria e l’oblio, Genesi Editrice, Torino, 2018, €. 16,00

 

La silloge poetica di Livio Bottani “La memoria e l’oblio” presenta in modo abbastanza articolato un percorso per lo più esegetico in cui il verso, dalla riformulazione classica dell’endecasillabo alla apparente libertà discorsiva, si distende in una connotazione ragionativa. “Ora sai che non si sfugge/ al destino,/ ora sai che la nebbia e il grigio/ non sono stati fugaci/ fenomeni d’antan,/ ma avvolgono la tua vita/ con una fitta coltre”. Non mancano, però, come sostiene Gros-Pietro nella prefazione, elementi caratterizzanti la lirica, come ad esempio allitterazioni, metafore, sineddochi, enjambement e via dicendo, ma ciò che maggiormente suggerisce la lettura di queste poesie è una visione d’insieme filosofica ed esistenziale, là dove il poeta ricostruisce se stesso in una formula dialogica denudata e denudante per riscoprire una specie di comun denominatore delle cose e del mondo.  “Vorremmo credere che la parola sia/ per mettere ordine nelle nostre anime/ disturbate dall’inesperibile;/ che ogni figura raccolga il senso/ di una sfida all’inesplicabile/ nella contesa delle interpretazioni/ che partoriscono mondi interi”. L’uso della memoria ci porta in anfratti storici e mitici, reali e possibili, contribuendo a delineare un cammino interiore anelante la verità dell’essere, disvelato in un pudore di affetti che recuperano ricordi non solo personali, bensì universali. Qualcuno direbbe che il re è nudo. Ma in questo caso il re è il poeta che si confronta in quotidiane battaglie, che affronta il lettore per risvegliarlo dall’intorpidimento, annebbiato ormai da una pluralità di voci e di consigli che tendono ad infiacchirlo piuttosto che a sostenerlo. “Non pensavi davvero/ che avresti nuovamente permesso/ alla musa di incalzarti”.  E ancora: “Povera e nuda se ne va la filosofia// (…) La poesia dovrebbe scaldare la pietra,/ col suo arcobaleno scaldare il mondo,// (…) Che non serva a niente/ e non sia serva di nessuno/ lo si sa bene e lo si mette in conto.// Non doversi vendere al mercato/ va a suo onore in tempi in cui/ l’unico valore sta proprio in quello”. In tale situazione un rifugio che Bottani suggerisce è il mondo classico, ribadito nella ripresa di poeti latini – Orazio in primis – e della loro concezione della vita, ma un mondo classico per nulla lontano da noi. Anzi. Del tutto assimilabile al nostro esistere. È il caso di famosi rimandi che, visti in un’ottica moderna, suonano altrettanto validi e affatto scontati. “È l’incurvarsi del tempo/ che spaventa,/ sapere che niente potrà fermarlo/ restituendogli il suo sentore antico.// (…) Avendolo perduto,/ non resta che il presente,/ da vivere nella sua pienezza/ di memorie, illusioni e attese.” Non c’è chi non veda in questi versi il “ruit hora sine mora” delle meridiane e l’oraziano “carpe diem”. E nella più classica delle tradizioni la silloge si apre con un proemio – In memoriam – che offre il la a tutta la raccolta e ne valida il racconto introducendo una specie di contrappunto alla scrittura poetica – in musica si parlerebbe di basso continuo.  La nota prevalente è il nero che sommerge ogni cosa: la luna, gli albori, gli sguardi e soprattutto i poeti, la loro voce, il loro respiro, la memoria stessa. “Neri fiocchi e luna nera,/ mare malato di notti senza risvegli:/ non c’è barlume che porti/ al di là di questo oceano tenebroso,/ che possa vincerne l’oscurità,/ dissolvendo tutto il dolore/ che si distende ammorbante sul cantore,/ coperta vischiosa dell’afflizione,/ latte nero degli albori/ in cui è annegato il poeta.” L’opera prosegue poi in tre tempi, altrettanto topici: papaveri e fiori di loto, pietre d’inciampo, pensieri come fuchi. Il file rouge che organizza e conduce il contenuto si dipana in cose concrete (fiori, pietre, fuchi) ma si risolve in meditazioni e domande. “Ma di che si vuole restanza se non dell’io?/ Rinunciare a esso e alle sue ubbie/ non corrisponde forse a un assottigliarsi?/ a un affilarsi? a un angelicarsi?” “Alla fine che resta dell’assottigliarsi/ e del non voler assottigliarsi?/ Una storia di preghiere e di dubbi,/ di scommesse e di rilievi sospettosi,/ di fede e scetticismo senza soluzione.” La policromia delle situazioni reali, allora, sembra affacciarsi in una universalità di sentimenti accomunati da una indubbia religiosità – non necessariamente quella cristiana – che insiste sulla specificità dell’uomo, quell’essere triste animal post coitum, che indugia in quesiti dopo millenni ancora irrisolti, che si inalbera in reiterate e irrequiete dispute di vita e di morte, di perdizione e di resurrezione. “E così abbiamo pregato e pregato:/ volevamo capire chi eravamo/ e cos’erano gli altri,/ carpendo il segreto delle nostre vite.”

 

Enea Biumi


Federico Aru, Sulla scia del vento, Genesi Editrice, 2019, €. 15,00

 


Non si tratta solo di un giallo noir. O per lo meno. L’apparente situazione delittuale offre lo spunto ad Aru di presentarci un’umanità borderline immersa in desideri, appagamenti, afflizioni, recitante a sua volta un copione di inespressi bisogni, strani appetiti, oggettive mancanze.  “Sulla scia del vento” che dà il titolo al romanzo è l’incontro empatico che avviene tra due individui: meglio, tra un ego e un alter-ego, entrambi portati a riflettere sulla condizione del proprio passato. Si innesta, allora, una serie di considerazioni sulla ineluttabilità dei gesti, sulla distinzione tra ciò che è giusto e ciò che è ingiusto, sul dovere, sull’amore filiale e coniugale: più estesamente sul bene e sul male. Non per nulla, all’incirca alla metà del romanzo, si legge come una parentesi: una meditazione che coinvolge in termini teologici la missione di Cristo e la riflessione sul tempo. “L’idea che mi ero fatto sul concetto di tempo somigliava molto a ciò che Gesù diceva di se stesso e predicava agli altri.”   Ecco la parola chiave: il tempo. Su questo il protagonista (o meglio, i protagonisti – ma non voglio svelarne la trama) si interroga nei momenti di pausa tra un’azione e l’altra; su questo si concentra il delitto che ammorba gli animi scaraventandoli in un turbinio di “se” e di “ma”, tormentandoli in un continuum di chiaro e scuro; su questo l’io narrante si erge a paladino della verità. Ma qual è la verità? E’ un anello di grande valore ereditato a cui siamo costretti a rinunciare? E’ il valore dell’amicizia? E’ la parola data e non concessa? E’ l’ingiustizia che costringe all’omicidio? E’ l’imbroglio che ti porta a mentire? E’ l’odio del figlio nei confronti del padre? E’ la situazione emergenziale che ti ha scaraventato sul lastrico, inibendoti gli affetti famigliari? Tante sono le domande che possono contornare il tessuto del racconto in cui il lettore si insedia partecipando e parteggiando ora per questo ora per quello, fino alla riflessione conclusiva che l’autore pone nell’epilogo, dove un sentimento su tutto ha la prevalenza: il perdono. Esso infatti è “una gemma preziosa che nasce non dalla ragione ma dal cuore”, “è un gesto di carità con il quale salviamo noi stessi dalla disperazione”, è la salvezza che sa “trarre dall’odio una speranza di vita.” Lo sfondo di tutto ciò è una Cagliari moderna che entra nel gioco psicologico dei protagonisti e che ne circonda figure e pensieri, adagiandosi nella scrittura di Aru quasi a raccoglierne agitazioni, pressioni e incubi. La minuziosa descrizione dei personaggi e dei loro gesti, la capacità espositiva ed analitica dei luoghi e dei paesaggi, supportano l’intreccio narrativo del romanzo, sostenendone la trama e il tentativo lodevole di mettere in primo piano sentimenti, psicologia, eticità: i veri protagonisti di una storia caratterizzata dal delitto e sottolineata dalla rinuncia al castigo o alla vendetta in nome del perdono.

 

Enea Biumi


Federico Aru, Il voltolino, Genesi Editrice, Torino, 2019, €. 15,00



 Appartengo alle terre di Gianni Rodari. Non me ne posso certamente fare un vanto. È il caso che l’ha voluto. Ma questo mi ha permesso un’attenzione maggiore alle problematiche da lui affrontate. Sebbene per motivi professionali abbia approfondito una pedagogia che privilegiava l’adolescenza (insegnando in Istituti Liceali, il mio sguardo era rivolto principalmente al rapporto adolescente-adulto) questi racconti di Aru, rivolti al mondo dell’infanzia, mi danno adito e sprone per discettare di una scrittura che mette al primo posto il bambino e che non può né deve essere trascurata o snobbata. Rodari insegna. “Il voltolino”, che si traduce in una serie di brevi racconti fantastici – ma non troppo – si propone di stimolare l’intelligenza e la curiosità infantile.  Partendo da una verità ormai assodata, ma spesso dimenticata – “maxima debetur puero revetentia” – l’opera percorre una serie di situazioni atte a trasmettere interesse ed ampliare conoscenze. Sembra quasi di assistere ad un drone il cui sguardo spazia ovunque sia possibile penetrare. I luoghi appartengono all’esperienza dell’autore, naturalmente, e sono messi a disposizione del fanciullo che ne potrà trarre vantaggio e utilità sia per il presente che per il futuro. Così dalla metropolitana di Milano alle nebbie di Bergamo, dalla campagna al mare, dal trattore Garibaldi agli uomini di foglie, si snodano favole fantastiche tra sogno e realtà. Ed è proprio il sogno che guida spesso la vita, non solo del bambino bensì dell’adulto, il quale, se potesse, ritornerebbe volentieri indietro per ripercorrere, ora consapevolmente, parte della sua esistenza. Perché, come sta scritto in quarta di copertina, “viaggiare attraverso la fantasia, in fondo, è una delle più serie missioni della nostra esistenza.”  Si tratta quindi di un percorso non fine a se stesso: il viaggio merita attenzione, passione, desiderio; il viaggio induce a conoscenza, opportunità, disvelamento. Aru è consapevole di ciò, e in questa consapevolezza inquadra i suoi brevi racconti destinati all’infanzia per costruire un’affinità familiare, un mutuo interloquire finalizzato alla crescita, recuperando la scrittura e quindi la lettura in un mondo che va via via sgretolandosi in formule e forme spesso tecnologicamente alienanti. Non intendo, ben inteso, criminalizzare nulla delle molteplici implicazioni comunicative contemporanee, ma c’è un modus comunicandi che non può essere trascurato. Il fuoco che Prometeo ci ha concesso sottraendolo agli dei ci ha permesso la costruzione del linguaggio e con esso il colloquio e la scrittura. Non dobbiamo dilapidarne il regalo. Per questo è importante il rapporto adulto-bambino, presentato in quest’opera di Aru. Finis coronat opus, si potrebbe in conclusione dire. Infatti, Il voltolino è costituito da storie da leggere “insieme, in famiglia, avvolti dal tepore di casa”, per recuperare il rapporto con i figli, per farli crescere affinché non si disperdano quelle qualità tipicamente umane che sono lo sviluppo, fisico e mentale, e la conoscenza, di sé e del mondo.

 Enea Biumi 

martedì 28 luglio 2020

Tiziano Rossi “Piccola orchestra” (Edizioni La Vita Felice, 2020)




Tiziano Rossi, poeta di lunga e accreditata militanza letteraria, ha dato alle stampe un testo che raccoglie brevissime prose essenziali, “Piccola orchestra”, definite antifavole e dicerie. Non nuovo a questa formula espressiva, Rossi sperimenta l’uso calibrato di un lavoro teso, come dice nella prefazione Stefano Raimondi, ad una vera e propria sottrazione del dire, in una prosa sostanzialmente ancora determinata ad essere comunque narrante. Il tutto addensa climi esigibili di costante e signorile ironia, con aspetti di vera e propria comicità in un teatro di figure che caratterizzano ogni profilo. Molte conclusioni rapide dei brevi passi indicano la via inevitabile di un epilogo spesso secco e amaro, ma senza che l’autore perda il suo distacco misurato e la sua funzione di osservatore lucido e disincantato; indicativo il personaggio affezionato alla borsa dell’acqua calda con la quale instaura un rapporto affettivo, del tutto impossibile invece nei confronti di un cucciolo di cane, cacciato a pedate. Una fonte d’ironia a volte cinica che intende smascherare ruoli superficialmente acquisiti e che , in realtà, nascondono tratti imprevedibili e spiazzanti. Anche le figure animali assumono connotazioni capaci di rappresentare esiti e stati che volgono a sviluppi classici nel paradosso che si fa insegnamento, esprimendo difetti e toni esplicitamente antropomorfici.  Il percorso dei racconti tende a riferire escludendo, sia negli  aspetti più concreti che in quelli surreali, una qualsiasi espressione consolatoria o giustificativa. La traccia registra, attraverso l’osservazione dell’autore, con un elegante distacco, ironico e cinico, il semplice svolgersi di eventi che improvvisamente si concludono in un carattere di sospensione privo di risposta. Scrive Tiziano Rossi, in un finale esemplare: “ Ora quella morbidissima cadenza del mezzo sta lievitando ed ecco che l’autobus addirittura si libra sereno nell’aria: è un fatto che nessuno ha voglia di interpretare”. Sembra proprio che l’intenzione dell’autore sia quella di comunicare episodi distaccati e avulsi da una qualsiasi logica prevedibile e capaci di porci all’osservazione del minimo atto in sé estraneo alla spiegazione, quasi che la vitalità del contesto non necessiti di elementi assolutori per realizzarsi e ci mantenga nell’impossibilità di asserire. La scrittura si presenta sempre di una totale e assoluta semplicità; un dicibile posizionato nel ritmo costante dei brevissimi racconti, come tappe di un succedersi di attimi regolati da un timbro di pacata inevitabilità. Tale clima appare riconfermarsi anche nella sezione che coinvolge nomi di poeti e filosofi anch’essi inseriti in questa equilibrata partitura che determina il luogo del possibile e, nello stesso tempo, del surreale, coniugata in una sintesi corale.
                                                                                                                       Andrea Rompianesi


sabato 11 luglio 2020

martedì 7 luglio 2020

Gianfranco Galante, "Volevo raccontare una storia...", Macchione Editore, Varese, 2020



“Non è mai facile raccontare sé stessi ed avere il coraggio d’esporsi al giudizio di chi ignora non conoscendoti”: così Gianfranco Galante introduce le sue pagine di diario, mettendosi a nudo e a disposizione del lettore. Sono pagine di memoria – è ancora l’autore a giustificarsi – perché “il ricordo è parte del vivere del nostro presente e ci accompagnerà nel futuro quando il presente sarà passato”.

Galante, in effetti, non è nuovo alle rivelazioni del sé. Come poeta, infatti, ha già abbondantemente abituato il lettore al racconto delle sue emozioni. Con la prosa, però, l’operazione assume una connotazione centripeta ancorché compiuta. Il sé diventa l’elemento da scandagliare pagina per pagina e, pagina per pagina, il discrimine fra ricordo e sentimento si fa consapevolezza di vita e di crescita costante. La strada, quindi, che l’autore vuole percorrere, ha da situarsi proprio in quei momenti fondativi che sono l’inizio di una esistenza che il destino gli ha preparato e che lui perlustrerà fra valori e affetti irrinunciabili.

“Ho voluto raccontare storie di vita vissuta, riflessioni personali, piccoli cenni storici; offro la conoscenza, a chi interessi, di un po’ di me” suggerisce, visualizzando poi un fuoco di lettura che ci permette una migliore comprensione del testo. E in ciò disvela un binomio ben rilevabile e affatto trascurabile: la Sicilia – del cui imprinting va fiero e orgoglioso – e la famiglia – che gli ha trasmesso i valori di libertà, onestà e amicizia.

          Siamo di fronte a un momento importante della sua formazione: quello che in letteratura si chiama Bildungsroman e che riesce a decifrare il primo percorso dello scrittore come apprendistato per la vita, sia del protagonista, sia dell’autore. In questo caso autore e protagonista sono un tutt’uno, per cui, allo stesso modo, in questo lungo racconto della propria infanzia Gianfranco Galante affronta i presupposti per gettare le basi del suo futuro: la conoscenza di sé. Nel ricordo dei suoi primi passi sul sentiero della vita, il protagonista-autore si identifica e si discerne.

Si tratta, allora, di un viaggio della memoria. Ma si sa che il viaggio, nell’antichità come nel presente, è un topos per indicare crescita e consapevolezza. Ulisse, Enea, lo stesso Telemaco, per colpa degli dei girovagano tra un porto e l’altro in mezzo a mille pericoli, ma alla fine raggiungono la propria meta più consapevoli e più forti di prima. In tempi più vicini a noi On the road di Jack Kerouac offre il medesimo risultato. almeno, questa è l'idea di John Leland, accettata e adottata anche da altri critici, dove si sostiene che si tratta di un romanzo ricco di lezioni su come crescere. Se vogliamo rimanere nell’ambito della formazione, non mancano esempi di viaggio anche in campo religioso. Le antiche religioni politeistiche, per esempio, prefiguravano iniziazioni attraverso viaggi di mistero che rafforzassero l’anima e il corpo. Dante ci fa attraversare, a mezzo del suo cammino, inferno e purgatorio per raggiungere il paradiso, cioè la piena consapevolezza del sé.

Ecco, allora, che il catecumeno Gianfranco ha la sua iniziazione in questo viaggio-memoria nella terra siciliana. E lì si riconosce, come direbbe Ungaretti, docile fibra dell’universo. Lì si intrecciano e si intersecano i rapporti umani, col vicinato, con i parenti – passati, presenti e venturi – con gli amici o con emeriti sconosciuti. Lì il protagonista cresce ed impara, accompagnato da ampie e sincere riflessioni sul perché della vita e della morte, della violenza e della sopraffazione, dell’amicizia e del perdono, dell’ipocrisia e della pazzia.

La sua formazione avviene negli anni sessanta – l’autore è nato nel 1964. Ed oggi – dichiara – sembra trascorso un secolo. Lo ribadisce spesso. La sua sicilianità sta in questo atto di fede assoluta a quel mondo e a quei modi d’essere e di pensare. Mentre in Italia, al nord, che a tratti frequenta e che diverrà dagli anni settanta in poi la sua dimora definitiva, è già in pieno sviluppo il boom economico e industriale, la società del sud vive ancora in tradizioni ancestrali e condizioni lontane anni luce dal progresso. E Galante preferisce questa a quella, perché la sente più genuina, meno artefatta, più naturale. Ci sono disagi, è vero. C’è un’apparente maggior povertà. Ma c’è una ricchezza di umanità incomparabile a qualsiasi altra situazione.

Significativa e paradigmatica è la contrapposizione tra abitudini e comportamenti diversi se non opposti tra nord e sud. Non c’è un giudizio di valore, beninteso. Entrambi sono accettabili perché nascono e si sviluppano in contesti diversi. Può essere emblematico l’episodio che Gianfranco narra del suo arrivo per la prima volta all’oratorio di Sant’Ambrogio in Varese. Vede ed osserva ragazzini della sua età che non fanno baccano, giocano senza insultarsi, sono educati e gentili fino ad assomigliare quasi a dei robot asettici. Lui è abituato alle urla, ai cazzotti, alle birichinate. Due mondi differenti, sia pur antitetici e complementari.

La povertà non è miseria. Non è disordine o trascuratezza. L’autore ce lo ripropone più volte. E se manca la luce elettrica o la radio, poco importa. Se è necessario percorrere chilometri e chilometri a piedi o sul carretto trainato dal mulo per poter vedere i propri parenti non è un dramma. Anzi: è la felicità. E’ la possibilità di incontrare altre persone, di soffermarsi a parlare, di sapere notizie. E’ un modus vivendi che si contrappone in modo considerevole alla frenesia di un mondo moderno che misura la vita in secondi. Lì la vita è misurata in stagioni. E ancora una volta c’è da sottolineare che non bisogna intravedere nessuna povertà in quel modo d’essere e comportarsi, ma ricchezza.

Galante confesserà di fatto più avanti: “la ricchezza la portavo dentro: dignità dell’essere, educazione, senso del dovere, senso della famiglia, senso del sacrificio a prescindere, conoscenza delle priorità, importanza dei valori, timor di Dio, rispetto del credo altrui, forza d’animo, forza di reazione ai disagi, umiltà, capacità di perdono”.  Sono infatti questi i valori ereditati dall’insegnamento dei suoi genitori, dei suoi nonni, dei suoi zii. Valori di cui andar fiero. Valori di una terra che fa soffrire e gioire. Valori di libertà.

Accanto alle motivazioni personali di crescita e sviluppo, Galante mette in rilievo anche il mondo contadino. Ne descrive il paesaggio, con ammirazione e dovizia di termini. Ne valuta lo sforzo e il sacrificio lavorativo della vita dei campi, in quel pezzo di Sicilia, che crea per lui, bambino, anche un clima di serenità e di spensieratezza. Vede il sudore dei suoi nonni e dei suoi zii. E ne vuole partecipare. Perché è in quel sudore – capisce –  che si colloca la pienezza della vita. Perché è in quel rapporto uomo-natura, ancestrale, che si compie la sua formazione. “Davanti ai miei occhi – sottolinea orgogliosamente – c’è il panorama della immensa valle di Segesta, il tempio ed il verde e giallo dei terreni della collina di fronte (…) Ecco perché questo luogo ha il fascino di cui sono vittima. E mi sento vivo più che mai e parte dell’armonia di quel posto.”

La valle di Segesta, è inutile rammentarlo, ha in sé la storia e la cultura che hanno formato il sapere occidentale.

Si capisce così il suo legame con la Sicilia e con la tradizione. Il suo essere preso in quel vortice magico che è il passato in contrapposizione al piatto e quasi insignificante presente. C’è tanta nostalgia per quel mondo, per la sua infanzia, per quell’umanità remota ma ancora viva nel suo animo. Ancora capace di commozione e di ammirazione. Si comprende allora il perché Galante abbia voluto rievocare tutto ciò, riportarlo in pagine di diario e trasmetterlo al fine di non disperderlo e dimenticarsene colpevolmente.

In queste pagine offerte al lettore si ritrovano gesti e sentimenti ormai desueti. Quando ad esempio Galante descrive il lavoro che il nonno e lo zio fanno nei campi, la loro attenzione quasi religiosa nei confronti dei prodotti della natura; quando raffigura i suoi compiti mattutini – rassettare la stalla, dar da mangiare alle galline, ripulire l’aia –; quando mostra la nonna intenta a preparare il pane da infornare, o a coltivare l’orto, o a preparare la cena; si ha come l’impressione di essere lì pure noi a gustare di quei momenti, a sentire quei sapori, a godere di quegli odori.

Né va dimenticato l’affetto reverenziale che Gianfranco nutre nei confronti dei propri genitori, più volte rammentati e portati in palmo di mano. Grazie a loro, oltre che ai nonni e agli zii, il viaggio della memoria acquista significativamente valore. La sicilianità ha uno scatto intenso, duraturo nel tempo. Ritrova la continuità dell’oggi, sia pur diverso, sia pur, forse, meno brillante e appassionato dell’ieri. Ma l’ieri è servito per crescere, per conoscere e conoscersi, per preparare i muscoli per l’oggi. Per questo non va dimenticato. Ma scritto e tramandato. Fosse anche solo per sé.

 

Enea Biumi


Michele Prenna, Le parole cercate, Macchione editore, Varese, 2005

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