lunedì 22 aprile 2024

Annitta Di Mineo, Del tempo disumano, Montabone Editore, Milano, 2023



Ci sono momenti della storia – e della vita – in cui il Poeta non può starsene appartato, abbarbicato a se stesso, solitario e pensoso in un suo eremo edulcorato. “Odio gli indifferenti” scriveva Antonio Gramsci su La città futura l’11 febbraio 1917. E proseguiva: “L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l’intelligenza.” Ciò che valeva allora è ancor più importante adesso in cui il mondo sembra andare a catafascio per una serie di problemi mai risolti. Ed è ancor più dove­roso per chi ha il compito, per vocazione o per scelta, di essere portavoce o antesignano di valori morali e universali. Questo tempo, apostrofato dalla Poetessa disumano, costringe l’intellettuale a posizio­narsi, o ad essere come diceva lo stesso Gramsci “partigiano”, perché “chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano”. Ecco allora il Poeta affacciarsi al balcone della storia, scendere nelle piazze, affiancarsi ai cortei e pronunciare parole nuove, parole di cambiamento e di speranza. Alcuni possono vederci tanta utopia in ciò, ma non sempre l’utopia è un male. Anzi. Sem­mai il male sta nel nascondersi dietro a qualche colonna per non apparire, per non essere parte, per non ascoltare o addirittura disdegnare l’ascolto degli altri, ignorando le grida di chi chiede e sup­plica un aiuto. Tali brevi riflessioni mi sono venute spontanee alla lettura di questa silloge poetica – con presentazione di Vincenzo Guarracino e postfazione di Alberto Mori – che ha meritato di essere candidata al Premio Strega del 2024. Vediamone insieme i contenuti.

Il libro si presenta in sei parti così definite: Pace, Vittime di mafia, Migrazione, Voci di donne, Natura, Shoah. Ciò che lega queste pagine, il leitmotiv o file rouge è il male. Non quello metafisico di pasco­liana memoria, ma quello presente hinc et nunc, che ci perseguita e ci travolge e che, sebbene uomini di buona volontà, non riusciamo ad estirpare completamente. La prima sezione – Pace – è un j’accuse contro i potenti. Sembra di risentire i versi del Poeta latino Tibullo quando si chiedeva: “quis fuit horrendos primus qui protulit enses?”. E la constatazione è amara: “giochi di guerra divertono politici folli”. La pace non esiste, è al di là da venire. “Perché uccidersi?” si chiede la poetessa insieme con le parole ed il ricordo del padre “giovane combattente”. Domande che non hanno risposta, quesiti che rimangono tali e che trovano “un mondo” che li “sta a guardare”. Ecco dove si nasconde “la grande vergogna // Nessun Nobel pe i supereroi volontari”. La guerra non ha età. I versi che Annitta Di Mineo costruisce rievocano la prima guerra mondiale, la seconda, la guerra di liberazione partigiana e quella attuale in medio oriente. È una “tragedia antica”, ma una tragedia riconoscibile in ogni epoca e in ogni stagione, perché ha un proprio specifico “odore”: “l’odore di morte”.

Non meno potente la parte dedicata alle vittime di mafia. La poetessa, siciliana di nascita, si scaglia con veemenza verso chi in nome del dio denaro “compra e uccide”, derubando la libertà della sua terra e delle sue genti. E sono proprio le sue genti, vittime di mafia, che Di Mineo commemora, ricorda, e piange. Vittime, a volte dimenticate, come don Costantino Stella, Franca Viola, Rita Atria. Vittime alle quali la poetessa innalza supremi inni d’amore. Come in quella lirica alla memoria di Felicia e Peppino Impastato in cui si riflette un coro da tragedia greca che rimbalza accanto all’inno di Iacopone da Todi per il pianto della Vergine Maria sotto la croce del figlio. “Figlio, le mie giornate sono piene di te / Tra le lacrime confondo il dì e la notte. // Madre, non struggerti / la mia morte non sarà vana”.

Lo sguardo della poetessa poi cade sugli immigrati. Altro dramma, altra tragedia. Anche in questo caso il male è dettato dall’indifferenza. “Indifferenza e paura / annegano popoli / in cerca di coste-rifugio”. E coloro che più ci rimettono, perché inconsapevoli e innocenti, sono i bambini. “Bambino risucchiato da onde / restituito tra la schiuma / indigna sponde europee / sfama nababbi”. Non c’è pietà, nemmeno per i più piccoli. Queste persone in fuga diventano numeri alla mercè dei trafficanti. “Accordi su accordi e le cifre / muovono finte gare d’appalti / I colori non si fanno la guerra / si dividono i profughi”.

Nella quarta sezione Annitta Di Mineo ascolta la “Voce delle donne”, dove “corpi sacrificati giacciono a terra.” Perché le donne non hanno voce. Sono vittime sacrificali e sacrificate alla violenza, come lo fu Cristo: “Anch’io crocifissa / con corona di spine / assunta in cielo/ mi salvo dal dolore”. Qui il pessimismo della poetessa si fa più intenso. Sente su di sé il dolore delle donne. Ne coglie il lutto, il sacrificio. Denuncia l’ipocrisia, la sopraffazione nell’ambito della stessa famiglia. “Lontano da mio padre / ricomincio a danzare la vita”. Non mancano in questa parte, oltre al ricordo, le dediche personali: una a Carolina Picchio, le altre a Mahsa Amini, alle donne iraniane, alle donne ammalate alle quali di tanto in tanto Annitta dona i propri capelli lunghi, alle raccoglitrici di tè, affinché “sul mondo sfinito” possa nuovamente rinascere il fiore: cioè la donna.

In questa silloge la poetessa non si dimentica della Natura, non intesa in senso leopardiano, bensì come elemento da accudire amorevolmente nella consapevolezza che se lei perirà anche noi moriremmo con lei. Purtroppo però “i soldi valgono più dell’aria che respiriamo”. Ma non possiamo rassegnarci per cui un richiamo va fatto: “Uomo / non piangere dei mali del mondo / se vuoi la tua specie salvare / prima di marcire / e morire / educa i tuoi figli ad amare la Natura”. Solo così si riuscirà a salvare il mondo, difendendo la Natura e non offendendola. Solo così la Natura saprà ricambiare l’affetto apportatole. “All’alba di un’altra normalità / la mia orchidea sfacciatamente fiorisce”. E in tale rinascita la poetessa ritorna al passato, quando ancora giocava sulle spiagge della sua Sicilia, quando respirava a “pieni polmoni” l’aria ancora pulita inspirando “l’intenso profumo di resina”, mentre veniva cullata dallo sciabordio delle onde.

L’ultima sezione riguarda la Shoah. La prima lirica, dedicata a Liliana Segre, parla di un incontro avuto con lei, la commozione provata, la forza di vita ritrovata. Di Mineo si fa interprete dei sentimenti e delle emozioni di chi, non per propria colpa, ma per spregiudicate politiche, veniva deportato in campi di concentramento. Si immagina deportata tra deportati “Qui fra voi / sento l’erba sussultare e i fiori sbocciare”. Sente sopra di sé il dolore e gli affanni di un popolo costretto all’annientamento. Coglie l’asprezza di momenti vissuti con la morte sempre al proprio fianco e ne descrive il dramma mai sopito, mai dimenticato nemmeno da chi, più fortunato, è sopravvissuto. L’ultima lirica della raccolta, anch’essa dedicata a Liliana Segre, si intitola “Treno di sola andata” ed è stata tradotta in ebraico, francese, albanese, russo, tedesco, inglese, ucraino, spagnolo.

Da ultimo, ma non certo di minore importanza, c’è da sottolineare l’ottimo lavoro di copertina elaborato da Guido Poggiani che, attraverso una specie di specchio simbolico, riflette con curve e controcurve grigio azzurrognole, e con una macchia rossa al centro del disegno, la disumanità del tempo che si abbatte sull’uomo, spesso cattivo interprete della storia e di se stesso.

Grazie a questa silloge, che ha avuto il patrocinio del Comune di Mirabella Imbaccari come riconoscimento alla validità artistica della propria cittadina nativa Annitta Di Mineo, spero che gli indifferenti riescano a riabilitarsi. È necessario che l’umanità raccolga questa sfida che la poetessa ci offre affinché il mondo migliori, affinché non si ripetano più gli errori e gli orrori del passato, affinché cessino le sopraffazioni e le umiliazioni. Forse – ribadisco – è utopia. Ma è utopia in cui il j’accuse ha un senso reale. Un ritorno agli ideali, ormai derisi e messi da parte, di quando si gridava cantando “Siate felici”, perché solo così guerre, ingiustizie, soprusi possono essere sconfitti e banditi per sempre.


Enea Biumi

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