“Non
è mai facile raccontare sé stessi ed avere il coraggio d’esporsi al giudizio di
chi ignora non conoscendoti”:
così Gianfranco Galante introduce le sue pagine di diario, mettendosi a nudo e
a disposizione del lettore. Sono pagine di memoria – è ancora l’autore a
giustificarsi – perché “il ricordo è parte del vivere del nostro presente e
ci accompagnerà nel futuro quando il presente sarà passato”.
Galante, in effetti, non è nuovo alle rivelazioni
del sé. Come poeta, infatti, ha già abbondantemente abituato il lettore al
racconto delle sue emozioni. Con la prosa, però, l’operazione assume una
connotazione centripeta ancorché compiuta. Il sé diventa l’elemento da
scandagliare pagina per pagina e, pagina per pagina, il discrimine fra ricordo
e sentimento si fa consapevolezza di vita e di crescita costante. La strada,
quindi, che l’autore vuole percorrere, ha da situarsi proprio in quei momenti
fondativi che sono l’inizio di una esistenza che il destino gli ha preparato e
che lui perlustrerà fra valori e affetti irrinunciabili.
“Ho voluto raccontare storie di
vita vissuta, riflessioni personali, piccoli cenni storici; offro la
conoscenza, a chi interessi, di un po’ di me” suggerisce, visualizzando
poi un fuoco di lettura che ci permette una migliore comprensione del testo. E in
ciò disvela un binomio ben rilevabile e affatto trascurabile: la Sicilia – del
cui imprinting va fiero e orgoglioso – e la famiglia – che gli ha trasmesso i
valori di libertà, onestà e amicizia.
Si tratta, allora, di un viaggio della
memoria. Ma si sa che il viaggio, nell’antichità come nel presente, è un topos
per indicare crescita e consapevolezza. Ulisse, Enea, lo stesso Telemaco, per
colpa degli dei girovagano tra un porto e l’altro in mezzo a mille pericoli, ma
alla fine raggiungono la propria meta più consapevoli e più forti di prima. In tempi più vicini a noi On the road di Jack Kerouac offre il medesimo risultato. almeno, questa è l'idea di John Leland, accettata e adottata anche da altri critici, dove si sostiene che si tratta di un romanzo ricco di lezioni su come crescere. Se vogliamo rimanere
nell’ambito della formazione, non mancano esempi di viaggio anche in campo
religioso. Le antiche
religioni politeistiche, per esempio, prefiguravano iniziazioni attraverso
viaggi di mistero che rafforzassero l’anima e il corpo. Dante ci fa
attraversare, a mezzo del suo cammino, inferno e purgatorio per raggiungere il
paradiso, cioè la piena consapevolezza del sé.
Ecco, allora, che il catecumeno Gianfranco
ha la sua iniziazione in questo viaggio-memoria nella terra siciliana. E lì si
riconosce, come direbbe Ungaretti, docile fibra dell’universo. Lì si intrecciano
e si intersecano i rapporti umani, col vicinato, con i parenti – passati,
presenti e venturi – con gli amici o con emeriti sconosciuti. Lì il
protagonista cresce ed impara, accompagnato da ampie e sincere riflessioni sul
perché della vita e della morte, della violenza e della sopraffazione, dell’amicizia
e del perdono, dell’ipocrisia e della pazzia.
La sua formazione avviene negli anni
sessanta – l’autore è nato nel 1964. Ed oggi – dichiara – sembra trascorso un
secolo. Lo ribadisce spesso. La sua sicilianità sta in questo atto di fede
assoluta a quel mondo e a quei modi d’essere e di pensare. Mentre in Italia, al
nord, che a tratti frequenta e che diverrà dagli anni settanta in poi la sua
dimora definitiva, è già in pieno sviluppo il boom economico e industriale, la
società del sud vive ancora in tradizioni ancestrali e condizioni lontane anni
luce dal progresso. E Galante preferisce questa a quella, perché la sente più genuina,
meno artefatta, più naturale. Ci sono disagi, è vero. C’è un’apparente maggior
povertà. Ma c’è una ricchezza di umanità incomparabile a qualsiasi altra
situazione.
Significativa e paradigmatica è la
contrapposizione tra abitudini e comportamenti diversi se non opposti tra nord
e sud. Non c’è un giudizio di valore, beninteso. Entrambi sono accettabili
perché nascono e si sviluppano in contesti diversi. Può essere emblematico
l’episodio che Gianfranco narra del suo arrivo per la prima volta all’oratorio
di Sant’Ambrogio in Varese. Vede ed osserva ragazzini della sua età che non
fanno baccano, giocano senza insultarsi, sono educati e gentili fino ad
assomigliare quasi a dei robot asettici. Lui è abituato alle urla, ai cazzotti,
alle birichinate. Due mondi differenti, sia pur antitetici e complementari.
La povertà non è miseria. Non è disordine
o trascuratezza. L’autore ce lo ripropone più volte. E se manca la luce
elettrica o la radio, poco importa. Se è necessario percorrere chilometri e
chilometri a piedi o sul carretto trainato dal mulo per poter vedere i propri
parenti non è un dramma. Anzi: è la felicità. E’ la possibilità di incontrare
altre persone, di soffermarsi a parlare, di sapere notizie. E’ un modus vivendi
che si contrappone in modo considerevole alla frenesia di un mondo moderno che
misura la vita in secondi. Lì la vita è misurata in stagioni. E ancora una
volta c’è da sottolineare che non bisogna intravedere nessuna povertà in quel
modo d’essere e comportarsi, ma ricchezza.
Galante confesserà di fatto più avanti: “la
ricchezza la portavo dentro: dignità dell’essere, educazione, senso del dovere,
senso della famiglia, senso del sacrificio a prescindere, conoscenza delle
priorità, importanza dei valori, timor di Dio, rispetto del credo altrui, forza
d’animo, forza di reazione ai disagi, umiltà, capacità di perdono”. Sono
infatti questi i valori ereditati dall’insegnamento dei suoi genitori, dei suoi
nonni, dei suoi zii. Valori di cui andar fiero. Valori di una terra che fa
soffrire e gioire. Valori di libertà.
Accanto alle motivazioni personali di crescita e
sviluppo, Galante mette in rilievo anche il mondo contadino. Ne descrive il paesaggio, con ammirazione e dovizia di termini. Ne
valuta lo sforzo e il sacrificio lavorativo della vita dei campi, in quel pezzo
di Sicilia, che crea per lui, bambino, anche un clima di serenità e di
spensieratezza. Vede il sudore dei suoi nonni e dei suoi zii. E ne vuole
partecipare. Perché è in quel sudore – capisce – che si colloca la pienezza della vita. Perché
è in quel rapporto uomo-natura, ancestrale, che si compie la sua formazione. “Davanti
ai miei occhi – sottolinea orgogliosamente – c’è il panorama della
immensa valle di Segesta, il tempio ed il verde e giallo dei terreni della
collina di fronte (…) Ecco perché questo luogo ha il fascino di cui sono
vittima. E mi sento vivo più che mai e parte dell’armonia di quel posto.”
La valle di Segesta, è inutile rammentarlo, ha in
sé la storia e la cultura che hanno formato il sapere occidentale.
Si
capisce così il suo legame con la Sicilia e con la tradizione. Il suo essere
preso in quel vortice magico che è il passato in contrapposizione al piatto e
quasi insignificante presente. C’è tanta nostalgia per quel mondo, per la sua
infanzia, per quell’umanità remota ma ancora viva nel suo animo. Ancora capace
di commozione e di ammirazione. Si comprende allora il perché Galante abbia
voluto rievocare tutto ciò, riportarlo in pagine di diario e trasmetterlo al
fine di non disperderlo e dimenticarsene colpevolmente.
In
queste pagine offerte al lettore si ritrovano gesti e sentimenti ormai desueti.
Quando ad esempio Galante descrive il lavoro che il nonno e lo zio fanno nei
campi, la loro attenzione quasi religiosa nei confronti dei prodotti della
natura; quando raffigura i suoi compiti mattutini – rassettare la stalla, dar
da mangiare alle galline, ripulire l’aia –; quando mostra la nonna intenta a
preparare il pane da infornare, o a coltivare l’orto, o a preparare la cena; si
ha come l’impressione di essere lì pure noi a gustare di quei momenti, a
sentire quei sapori, a godere di quegli odori.
Né va
dimenticato l’affetto reverenziale che Gianfranco nutre nei confronti dei
propri genitori, più volte rammentati e portati in palmo di mano. Grazie a
loro, oltre che ai nonni e agli zii, il viaggio della memoria acquista
significativamente valore. La sicilianità ha uno scatto intenso, duraturo nel
tempo. Ritrova la continuità dell’oggi, sia pur diverso, sia pur, forse, meno
brillante e appassionato dell’ieri. Ma l’ieri è servito per crescere, per
conoscere e conoscersi, per preparare i muscoli per l’oggi. Per questo non va
dimenticato. Ma scritto e tramandato. Fosse anche solo per sé.
Enea Biumi
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