“da un nulla di torba, argon, catrame/ canta me, besame
mucho, diastema/.../ il nulla che muovo como si fuera/ esta noche/ la/ voz”...
come suono in plurilinguismo asimmetrico, come inserzione di sintagmi in
apertura, i rimandi evidenti suonano nell’accorta tessitura del dettaglio. E’
“Terzo paesaggio” di Renata Morresi, autrice e traduttrice di letteratura
anglo-americana. Quel paesaggio terzo che corrisponde a tutti quei luoghi
abbandonati dall’uomo, intende porsi a scenario di scomposto approdo per
obliqui e ironici affondi. Uno dei primi temi trattati, essendo l’autrice di
Recanati, è il dramma del terremoto che nel 2016 ha colpito le Marche. Renata
Morresi intende denunciare, attraverso un approccio stilistico originale, la
deriva retorica dimostrata dalla banalizzazione dei toni nel sistema dei media.
I tronconi dei versi sembrano figurare resti e relitti, geometrie abitative
divelte e nello stesso tempo, le colpevoli negligenze velate da progettualità
vendute come risolutive e salvifiche. L’amarezza destina il processo alla
sonorità allitterante contesa da una volontà attinente alla prosecuzione
narrativa, alla contrastiva opportunità di composizioni a versi ridotti in
unità sillabiche, oltre a spasimi estesi e dilatati in versi lunghi e
prosastici. Figurazioni opposte che si alternano sulla pagina. Una qualche
assonanza intercetta il flusso contenuto all’interno di un dire che contempla
duro le patologie di uno stato civile che ha perduto le sue vere prerogative;
la sindrome depressiva di un contesto generale impregnato di precarietà, deriva
economica, delirio digitale. Vi è poi una sezione, “Car wash”, dedicata alla
memoria del padre, definito dall’autrice “uomo di natura e di macchine”; il
verso qui compone adulto il tratto reiterante che designa l’articolata e
alterna posizione spaziale nella vocazione sospensiva della “solo attesa” nel
travaglio indocile de “la percezione libera”. Ci sono interventi linguistici di
particolare riproduzione elaborativa che ricordano esperienze poetiche
tecnicamente legate alla rappresentazione dei meccanismi come, solo per citarne
un esempio tra i più riusciti, “Distribuzione” di Alberto Mori, nel quale l’uso
espressivo riproduce la modalità della sigla nella sua accezione semiotica in
rigore modernistico: “ ne 1 pista aspirazione 2 pista aspira 3 s spi azio 4 sta razion 5 pi spi ne”. L’incastro
movimentato non estingue il dolore e attende un moto la possibile consolazione
ritradotta in smarrimento fluido, la stessa diversa grandezza, a volte, dei
caratteri tipografici, lo svelante ritmo conoscitivo in potenza memorabile
nella “pianura di noi espansa, bianca/ che non viene separata dalla notte”.
D’altra parte già prima, molto prima, si erano svolte ondulazioni sussistenti
che operavano riconoscimenti istintivi e dislocati in procedure mobili,
ipotizzando “le cose che vedremmo andando in bicicletta/ sulla battigia”. Poi
tutto diventa imbarazzo sillabico, volutamente spezzato, quasi infranto, come
una procedura linguistica che rivela interruzioni inesplicabili, ingorghi
indicibili, frantumati messaggi occupanti lo spazio web. Ci salverà forse la
possibilità di una pista; quella riproposta da Franco Fortini: “Noi ci troviamo
in questo momento in corsa/ in una lunghissima curva della pista”. Renata
Morresi ci parla di una vocazione intessuta di elaborazione linguistica e
abilitata a commuoversi “per quel tacere delle cose”.
Andrea
Rompianesi
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