“Il 1° di giugno del 1977 le lezioni nella scuola Nazionale di Educazione Tecnica n° 25 «Tenente Primo di Artiglieria Fray Luis Beltran» si svolgevano normalmente.
Questa
scuola è situata nella strada Saavedra, del quartiere Undice, nella capitale
Federale. Erano circa pochi minuti che avevano iniziato il turno serale. Erano
quasi le otto di sera quando si avvicinarono tre uomini sconosciuti in abiti
civili, e dichiarando uno di loro di essere fratello di un alunno della scuola,
sollecitò il bidello di chiamare un direttore. Roberto Santoro(*)
che aveva l'incarico di vice direttore si presentò per parlare con loro. Appena
lo riconobbero, e senza nessuna parola lo zittirono con la forza, brandendo
delle armi da fuoco.
Un'impiegata
cominciò allora a chiedere aiuto. Il resto del personale che lavorava nella
scuola arrivò urgentemente. Mentre Roberto Santoro veniva fatto salire su di
una vettura tipo Ford Falcon uno degli sconosciuti obbligò il personale a
rimanere con le mani in alto contro la parete nei locali vicini. Il bidello che
era vicino a Santoro fu picchiato e gettato per terra.
Sappiamo
che approssimativamente un mese dopo il fatto accaduto si presentarono nella
sua casa due persone che si qualificarono come funzionari del Ministero degli
Interni, chiedendo ai familiari e ai vicini se sapessero se lui avesse
avvallato l'entrata nel paese di un cileno; tutti gli interrogati risposero che
non sapevano nulla di ciò.
Un'altra
persona, pure lei vestita in abiti civili, e che si qualificò come agente del
Commissariato la cui giurisdizione corrispondeva al domicilio di Santoro,
incominciò a chiedere di lui senza chiarire concretamente il motivo
dell'investigazione.
All'inizio
di agosto un rappresentante dell'esercito che questa volta si accreditò
debitamente, chiese di essere sentito dal reggente di turno, la massima
autorità della scuola in quel momento. Lì si capì che stava indagando se si
sapesse qualcosa della militanza politica o sindacale specifica di Santoro. Le
persone interrogate risposero che non sapevano nulla di ciò. Una delle cose che
domandava con insistenza erano i luoghi in cui Santoro avesse lavorato
anteriormente.”
Ho voluto iniziare la recensione di “Musha” con questa testimonianza del procedimento che mi è stata consegnata dal poeta argentino Martìn Poni Micharvegas quando ancora lavoravo per la rivista letteraria “Il Majakovskij”. Il romanzo mi ha ricordato quegli incontri con l’Amico poeta, quel clima da lui descritto fin nei particolari e l’ammirazione devota che Poni nutriva nei confronti di quegli intellettuali desaparecidos.
Santoro
era uno di loro.
Gabriela
Bosso, scrittrice argentina di Tucuman, ha saputo ricreare le atmosfere di
terrore e di paura tipiche di quegli anni di dittatura dei colonnelli
(1976-1983) con un linguaggio semplice e piano, privo di retorica ma ugualmente
colmo di pathos ed apprensione. La sua narrazione rievoca quel periodo
attraverso l’esplicitazione di sentimenti del tutto schietti, non artefatti, ma
non per questo irreali o non veritieri.
In
effetti la vicenda del romanzo è tratta da una storia accaduta. Così come
alcuni episodi, appena accennati, ma di fatto documentati, come ad esempio la
condanna di alcuni scrittori invisi al regime e il conseguente rogo di libri
come quelli di Proust, Garcia Marquez, Cortazar, Neruda, Vargas Llosa. Perché così
stava scritto su l’Opinion: “Inceneriamo tutta la documentazione perniciosa
che intossica l’intelletto, per il nostro modo di essere cristiani… e
rispettando il nostro patrimonio spirituale sintetizzato in Dio, Patria e
Famiglia”.
È
vero che le situazioni in cui i protagonisti verranno coinvolti, spesso loro
malgrado, non sono delle più normali. Ma gli stessi non appaiono né si sentono
eroi. Sono persone comuni che si trovano senza volerlo a dover fare i conti con
un regime oppressivo e senza scrupoli. Sono attraversati da dubbi, da silenzi,
da sguardi che si rincorrono in eterni interrogativi scevri di risposte
soddisfacenti.
Il
dramma che già dalle prime righe coinvolge il lettore è mitigato dalla figura innocente
di una bimba: Musha. È lei che guiderà la mano della scrittrice. È lei che si
vedrà circondata da avvenimenti che non comprende ma che la seguiranno ovunque.
È lei che bene o male indirizzerà molti degli episodi toccanti del romanzo.
Alcuni momenti saranno visti dal lettore attraverso la sua curiosità o la sua
disubbidienza infantile. E saranno le sue marachelle che a volte risolveranno
le difficoltà degli adulti, come ad esempio un orologio rubato al padre e
donato a un gigante del circo che permetterà la fuga e la salvezza della sua famiglia.
Il
padre, Guillermo, è un pilota civile addetto a trasportare per varie emergenze gli
ammalati gravi all’ospedale della capitale con l’aereo. Il suo compito è
salvare vite umane. Ma un giorno questa sua missione verrà ostacolata dal
generale il quale gli imporrà di imbarcare sull’aereo presunti ribelli per
gettarli vivi nella diga. Proprio l’opposto di quello che stava svolgendo.
“Con
la certezza di possedere la verità assoluta il generale abbaiò come sua
abitudine un ordine. (…) «È necessario gettarli nella diga» osservava il
generale, così come se niente fosse, come se stessero parlando del clima «ogni
notte quando diventa buio li portiamo fin qui e li carichiamo sull’aereo e l’unica
cosa che deve fare è sorvolare la diga e noi ci occuperemo di gettarli» «Vivi?»
fu la prima cosa che riuscì a dire Guillermo travolto dall’orrore. «Sì, sì,
vivi. (…)»”
Naturalmente
il pilota si rifiuta. Il seguito lo lascio al lettore.
Il
ritmo del romanzo è incalzante. Gli episodi si intrecciano e definiscono gli
ambienti. Le persone proseguono fra amori e presunti tradimenti, nostalgie del
passato e verità del presente. Ed è proprio l’amore la molla che si innalzerà al
di sopra della malvagità dei potenti.
“Accese
la luce del corridoio e prese dalla sua borsa un foglietto giallo che Guillermo
le aveva lasciato sopra il comodino tempo prima. Diceva solo ‘ti amo’ e Julia
restò a guadare le lettere scritte da suo marito e le si formò un nodo alla
gola: ovunque lui l’aveva sempre fatta sentire l’unica al mondo.”
Un
romanzo emozionante, dunque. Un riscatto sincero e dovuto per quelle migliaia
di desaparecidos argentini periti a causa delle atrocità di un regime inumano
che tanto sangue innocente ha versato.
Enea
Biumi
(*)
Il primo giugno 1977, tre individui in abiti civili e con la forza delle
armi, sequestrarono sul suo posto di lavoro (una scuola di formazione tecnica
per giovani e con turni di notte) Roberto Santoro. Ciò avvenne in un quartiere
centrale di Buenos Aires, Argentina. Non era un fatto nuovo od isolato. Era la
nuova cresta di un'onda repressiva, cieca, avida di violenza, che prendeva
nuovo impulso. Roberto Santoro era una delle voci poetiche più intrecciata al
dramma argentino acceso dal golpe del marzo 1976. Le Ediciones del rescate
hanno pubblicato nel 1979 una selezione dell'opera di questo autore, che figura
nelle scabrose liste dei "desaparecidos", un genocidio legalizzato di
circa 30.000 persone.
Roberto
Santoro era un infaticabile lavoratore della cultura. La sua opera poetica, lo
si può affermare senza equivoci, non terminava nel campo ristretto della
poesia. Era più ampia, più generale, ed abbracciava tutti gli aspetti dell'uomo
così come richiede la sua complessità. Era un tipo, comunque, con i piedi per
terra. Dal 1962 aveva pubblicato i suoi versi e quelli altrui. Era nato a
Buenos Aires nel 1939. Diresse riviste letterarie, diede impulso alla creazione
di stampe autogestite di edizioni effimere e compose versi per tanghi e
canzoni, registrate da validi interpreti.
In più si univa a pittori per formare precari ma meravigliosi banchetti
dove vendeva a mano le poesie illustrate. Era come se il poeta avesse dovuto
abbracciare la musica e le immagini per fonderle in un solo atto comune. Non
sto parlando di un personaggio sperimentale come i "pazoctaviados" (cioè
seguaci di Octavio Paz) di allora, che esprimevano la tipografia e lo spazio
formale in procura di un codice di rottura e novità. No. Santoro confidava in
un altro tipo di vincolo. Meno formale e più emotivo, forse. Non rincorreva
l'ultimo canto di sirena della nuova onda. Era un uomo di amori profondi,
duraturi. Buenos Aires è una città difficile, enorme, smemorata come ogni buon
porto. Santoro lo seppe sempre. Lo appassionava singolarmente il tango, il
calcio, le mostre della cultura di massa (ma non i mass-media), la difficile
caratterizzazione e riconoscimento delle autentiche espressioni del
proletariato. Dei "grones", dei "gronchos", (cioè di umile
aspetto) come suole dirsi nel nostro gergo, nel nostro dialetto. Populista? Non
lo credo. Lo conobbi nel 1971. Infervorato, loquace, acuto, sfiorava
l'eccitazione: già era una personalità attraente, cara, affascinante. Un uomo
asciutto, gioviale e tenero, molto calvo e con un enorme barba nera.
Sindacalista di Musicisti, Sindacalista di Artisti Plastici con le sue prime
inquietudini di organizzare gli scrittori in un'associazione. Concepiva l'arte
come un gesto umano generoso che imbarcava la società stessa. Piccolo borghese
radicato? Si sarebbe fatto delle risate. Ancora oggi si sentirebbero le sue
risate. Santoro sapeva: «Buenos Aires fa orecchi da mercante, ma il popolo no».
Mi commentò una volta. «Sebbene un terzo degli argentini vive male nella
città-porto, Buenos Aires non è il paese». Un terzo di 25 milioni di abitanti
era la popolazione del 1975. Gli stessi sobborghi di Buenos Aires, non sono
certo Buenos Aires. Descriveva molto bene questo fatto paradossale: frange di
una immigrazione interna distrutta, prodotta in tempi del peronismo e dietro
promesse di una vita migliore. Da lì sgorgò la lotta di questi diseredati ed
emarginati, che avevano tutto da guadagnare e niente da perdere: l'antico
confronto. E ogni riferimento allo sfruttamento dell'uomo sull'uomo non era, in
questo poeta girovago e di instancabile entusiasmo, coartata retorica. Ci toccò
vivere due decadi di fuoco: 1955-1975, che maturarono e fortificarono i nostri
anni giovani con i loro venti rivoluzionari. Santoro, come uno di quella
gioventù fantastica, lo ammise e lo assunse. E preparò la sua poesia per
quello. La scrisse rapida, sagace, resistente, come una chiamata urgente e un
fulminante pamphlet – e vista con gli occhi implacabili della necessità,
imperitura, innocente, amante. Nel 1974 partecipò attivamente, nell'ambito
della SADE (Società Argentina degli Scrittori) alla costituzione dell'AGE
(Associazione degli scrittori) di cui fu segretario e, dopo il golpe militare,
perseguitata fortemente dalla repressione. Dei suoi scarsi quaranta associati,
tra i quali anch'io, oggi, oltre Santoro, figurano anche altri soci come
desaparecidos: Haroldo Conti, Oscar Barros, Dardo Dorronsoro, Carlos Hita. E
Santoro è il paradigma non di una nuova poesia nascente, ma di un nuovo veicolo
poetico tra gli uomini. Questa fu la realtà frustrata nei suoi valori, nei suoi
progetti, spezzata dall'intervento militare. Tutto stava per essere rivelato e
rilevato. Dettagliatamente: economia dipendente, realtà manipolate. Fami
insaziabili, giornate insalubri, disoccupazione cronica. Penetrazione culturale
e analfabetismo indefesso. E per questi luoghi torbidi passavano le frasi
luminose della poesia di Santoro: una epifania perentoria dell'essere
sconvolto, malversato, spossessato di se stesso. Una poetica dell'eversione e
della ribellione. Essere poeta, come lo fu Santoro, in mezzo a un turbine di
cambiamenti totali, è un'attitudine militante nel limpido sentire dialettico
del termine. Ancora oggi la sua lettura produce ed esige un compromesso.
(Martìn
Poni Micharvegas, Madrid 1980)
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