Ci sono portici (forse quelli di Mark Strand, ad esempio) che favoriscono moti, mutamenti ma anche nascondimenti, accalorati percorsi dove rivisitare con grazia le abitudini del presente, così come le suggestioni che provengono dal passato. “Questo è il tempo che non mente” dice un verso riportato nella copertina di “Corpo contro” esito poetico di Daniela Pericone. La gioia è forse inutile? E poi quale sentimento nel dissidio vissuto tra natura e ragione? L’autrice sembra volersi identificare con la pratica di versi in equilibrio espressivo tra nitore e quesito, levigature che intervengono attraverso l’inesorabile contatto e impatto dei corpi, corpi contro appunto, dove le frazioni interpretate sulla distanza si pongono come oggetto d’osservazione riprodotta in forma evocante qualcosa non dichiarabile se non attraverso l’allusiva flessione sonora del verso. E’ un clima svelato nel quale “l’aria si muove appena/ anche le statue cadendo/ non fanno rumore”; emerge un incalzante gioco di ombre e di luci, una figurazione urbana che disegna le sorti dell’attesa, trattiene l’esultanza, avverte circa la compatibile ansietà indistinta. E’ qualcosa che induce a rivedere le possibili diramazioni di una espressività contenuta nella prossimità delle percezioni che Daniela Pericone stende sulla pagina in una volontà di decifrazione affidata all’immediato sentire le sfumature cromatiche così veicolate alla vulnerabilità stagionale e umbratile, nella conformazione che permette allo sguardo l’attinenza controvento, lo sfilarsi accadente e condiviso, tracciato nell’ipotesi plausibile. Riemergono allora recuperi d’infanzia, reperti di stagioni intrisi di segnali riconoscibili; “socchiusi gli occhi/ lame d’acqua e altitudini/ dal centro nessuna distanza”. Certo l’autrice evoca falcate di vuoto ma anche fiori e piante, giardini d’inverno, le fatiche dei ritorni. In una poesia particolarmente significativa si snoda la natura tersa dei notturni attraverso la solidità paziente delle radici, quelle che permettono l’intimità con la terra, una fisicità sofferta, quando “qualcuno dispensa consigli/ e biscotti della fortuna/ un vaticinio in ogni biglietto/ rimbalza dalla sapienza dei secoli”. La compattezza lineare e allo stesso tempo lieve della tessitura linguistica permette di realizzare l’equilibrio testuale nella determinazione dicibile del procedere attraverso la suggestione solo quando essa è in grazia di accenno, nella costante e pervasiva mobilità dell’accadente, cauta percezione rielaborata in quesito, indocile acquisizione di una imponibile difesa alla caduta che è ferita (difesa dei sensibili direbbe Riccardo Olivieri), tenendo presente che “...sei su un vetro/ sempre sul punto di rompersi”. Ed è ancora e sempre una contorsione di luci e fiati, respiri e paure; materia in gioco, così come frequentazioni solitarie, derive vorticose. “Dopo il crollo ascolta i segnali/ il buio è meno buio, il dolore/ non più acuto, o forse meno ostile./ Anche lo spreco delle nostre vite/ non sembra così grave...”; ci sono panneggi nei versi che trattengono uno stupore maieutico, un auspicio di comprensione segnato tra le apparenze di una dissoluzione. “La notte si tiene in disparte/ un varco al tepore/ una distensione del respiro-/ la tregua nei fuochi della battaglia”, come un bagliore di contrasto che giunge qui dalla visione delle opere di Caravaggio, l’attenzione che allontana la perdita, il continuo assorbito dalle ombre, l’ibridazione e quello che Daniela Pericone intende come l’incessante rumorio dei pensieri.
Andrea Rompianesi
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