“Porta. Serratura
opaca graffiata. Infila. Gira la chiave. Non riesce. La scuote. Si appoggia.
Resta ferma. Adesso riprova. Prova ancora, ancora. E, a un altro tentativo,
ecco. E’ dentro”. Così la narrativa folgorante espressa dalla scrittrice
irlandese Eimear McBride nel suo “Strange Hotel”, tradotto in italiano da
Tiziana Lo Porto. La figura femminile raffigurata in una stanza d’albergo a
concentrare pensieri dell’immediato filtrare sensazioni di un passato prossimo
e remoto. Le anonime stanze d’hotel di varie città diventano un unico
claustrofobico spazio d’interno dove percepire le fragranze angoscianti della
condizione umana allo scorrere ineluttabile del tempo, nella reiterata
aspettativa che domanda attraverso gli oggetti definibili nei ruoli e nelle
differenze concesse della presa d’atto. Ricordi, amori passati e fugaci,
insofferenze, malesseri vitali compongono la partitura di una pagina in cui lo
stile letterario emerge finalmente in una realizzazione testuale oggi davvero
rara. L’interpunzione grafica, qui concentrata principalmente sull’uso del
punto fermo, imposta un evento scritturale a flusso di frasi brevi concatenate
che incidono la conduzione di un ritmo assertivo finalizzato a determinare una
procedura a scatti continui. Eimear McBride sembra aver assorbito alcune
tipologie espressive di narrativa d’interni; pensiamo, ad esempio, ad un esito
particolarissimo come “La stanza da bagno” di Jean- Philippe Toussaint. Le cose
assumono il potere di riflettere, in quanto oggetti della nostra osservazione,
interpretazioni visitate nella molteplicità degli spunti e delle sensazioni. Le
vicinanze umane comportano dissidi, alternano attrazioni e fughe, compositi
sillabari di un lessico oggettuale: “Le tendine marroni sono tirate su. Le
altre sono spalancate. La maglietta di ieri in qualche modo si è ristretta.
Suoni di sesso dappertutto”. E poi si colgono rimpianti e disprezzo, indugi e
rovelli, desideri e domande, come singhiozzi muti investigano insoliti
protocolli, così transizioni avvertite conducono a evocazioni di giovinezza
trascorsa. “Che piacere essere un corpo solitario che si fa strada nel tempo.
Se solo fosse vero. Ma quale persona è in possesso di tutte le risposte che
desidera?” si chiede l’autrice. Certo l’amore perduto, nelle sue forme di
seduzione concreta ma anche onirica, galleggia nella continua, ossessiva
composizione dei tasselli comparabili. La protagonista vive l’incontro
occasionale come una sintesi di tensioni irrisolte aperte alla trasformazione
in un’opzione accolta: “Poi all’estremo nord, in alto, un gabbiano passa di
sbieco, grigio-bianco nel grigio che sbianca nella luce. Un altro. Un altro. E
poi un altro... Lei guarda mentre una corrente li guida e li porta più lontano
dove, suppone, c’è il mare”. L’angolazione della visuale conferisce al passo la
complessità del gestire razionalmente le ossessioni, i dolori, dialogando con
la propria coscienza e ponendosi nella ricezione levigata del confronto con la
precarietà esistenziale. McBride insinua la determinazione del voluto o negato,
del permettersi l’episodio dell’incontro intimo quando l’esclusione avvalora la
sintassi del dicibile. Pulsioni e note compresse nell’autoanalisi
destabilizzante la prevedibilità dei percorsi, inerente all’alternativa delle
trasgressioni. Il clima d’incompiutezza tracima e deborda evocando amori
perduti e ricreando l’aroma erotico delle stanze d’albergo. Qui, però,
l’autrice impegna la parola in una avventura interiore dove il flusso della
coscienza ridisegna il possibile incrociarsi delle varianti e ci porta nella
direzione del rigore dialettico sulla prospettiva ad invito: “Affronta la luce
tetra del lampione ma, senza volergliene, vai dov’era l’ultima volta. A quel
punto guarda e vedrai il sole ammiccare a se stesso verso est”, ben sapendo
dalla voce narrante che il passato non è mai stato davvero un’opzione e
sentendosi come l’ultima di tanti ricordi.
Andrea Rompianesi
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