Il titolo di una silloge,
solitamente, apre uno spiraglio sul contenuto. In questo caso la chiave che
spalanca la comprensione dei versi è il termine tempo, da una parte, e rughe,
dall’altra. Ed il tempo, in effetti, sta da trad
union a tutta la raccolta, che ha, tra l’altro, come sottotitolo “poesie del divenire”. Si intuisce
immediatamente, allora, come il cuore di quest’opera sia uno scandagliare in
tutti i suoi aspetti la forma “tempo”
e si capisce come mai l’assenza di rughe sia un elemento essenziale per poter
analizzare e, in ultima analisi, tentare di comprendere l’andare delle cose. In
tal modo, e solo in questa prospettiva sembra affermare Di Mineo, la poesia
recupera il divenire e tutto ciò che si affaccia sulla soglia del tempo, sia
esso insito nel microcosmo personale della propria ed intima esperienza, sia al
di fuori di se stessi nel macrocosmo che ci sovrasta e col quale, volenti o
nolenti, dobbiamo relazionarci. In una scrittura sostenuta dall’essenzialità
linguistica e sintattica, opportunamente orchestrata in versi lapidari che
danno la misura dello scorrere veloce della vita, la poetessa ci conduce entro
linee ed orizzonti metafisici dove possiamo confrontarci con sensazioni che
sicuramente vanno al di là del puro dato prammatico. Non si tratta solo dell’antico
assioma ruit hora, (“Ore minuti secondi/ scivolano via/ irreali”)
bensì di una ben più complessa introspezione, che segnala una dialettica tra l’autrice
e il tempo. Non è un caso che i primi versi affermino apoditticamente “Creo il tempo/ per la mia crudele lucidità”.
L’aggettivo crudele ci spiega che non è un compito facile. Anzi. Meditare fa
male. Fino alla crudeltà. Ma nello stesso istante ci si mantiene lucidi, cioè
consapevoli, perché portare alla luce l’iter della propria esistenza diventa
operazione necessaria, momento non procrastinabile, cartina di tornasole. Ecco
allora che quasi nervosamente, a scatti si potrebbe ipotizzare, avanzano nella
prima parte della silloge, sottotitolata appunto tempo, lacerti di immagini che illuminano il passaggio per poi
immediatamente spegnerlo: è un incessante accendersi e spegnersi come quei fari
sui campi di prigionia che di notte ispezionano il confine. “Il tempo mia dimora / scippa ricordi
desideri”. Ma è necessario proseguire. Non ci si può far sopraffare. Bisogna
vincere il tempo. “All’uomo clessidra/ il
granello/ che lo separa dal nulla/ non sembra più infinito”. Per questo il
dolore va esorcizzato, in ogni sua forma, sia per la morte, sia per l’amore. E
giungiamo alla seconda parte della raccolta (dolore) dove l’esame delle pagine ci induce a vagliare gli aspetti
più personali della poetessa: l’amore e la morte, in primo piano. E bisogna
subito constatare che non c’è disperazione, non ci sono ineluttabili drammi, ma
realistica visione. Se c’è urlo, si tratta di un urlo soffocato che comunque
non strazia “soffro senza menzogna”; “piango / per restituirmi al presente/ per
conciliarmi col passato”. La condizione è sempre e comunque il dialogo, il
desiderio di condivisione e mai di divisione. Microcosmo e macrocosmo si
uniscono alimentandosi l’un l’altro: “Silenzi/
passaggi obbligati/ tra uomo e creato”. Nel momento raziocinante della consapevolezza
ci si immerge in una specie di vasca purificatrice, come per declinare
colpevolezze che non sono nostre, ma del destino: “Il destino s’annuncia/ vacillo/ coi piedi d’argilla”. Superati gli
scogli del hic et nunc ci si apre all’infinito.
E’ la terza parte della silloge (infinità)
che si dispiega nella realtà quotidiana solo apparentemente, perché non ci si
può soffermare a lungo su di essa, la poesia deve andare a captare sensazioni
extrasensoriali, cogliere nella finitezza delle cose l’infinito del tempo. Incontriamo qui le liriche più personali e,
per così dire, intime dell’autrice. Di Mineo si mette a nudo davanti al
lettore. Gli comunica le proprie angosce, i propri dubbi, le proprie
esperienze, ma senza esasperazione. Rischierebbe in altri termini di deviarne l’attenzione
e delimitarne l’orizzonte di interpretazione. Attraverso un sapiente dosaggio, invece,
la poetessa ci offre i suoi sentimenti con semplicità ed autorevolezza. Quell’autorevolezza
che le viene dal saper limare i propri versi con maestria e lavoro consapevole
di cesellatura, privo di retorica ampollosità, conscia di una responsabilità sintattica
e formale. Non troveremmo altrimenti alcun interesse o alcun feeling in questo iter poetico, che
intende superare i confini del finito per farsi oggetto e soggetto, personale e
impersonale, materia e spiritualità, dove in un’estrema sintesi la poetessa
confessa: “finzione e realtà coincidono”.
Il tutto riassunto in quell’ossimoro finale – uno schizzo veloce e illuminante –
che recita: “chiarore/ nel cielo del tramonto”.
Enea BiumiScrittura Nomade - Viaggio polidiomatico di Arte e Cultura - Variazioni sul tema scrittura
mercoledì 26 febbraio 2020
martedì 25 febbraio 2020
Paolo Ruffilli, “Le cose del mondo”, (Mondadori Libri, 2020)
La memoria rievoca una essenziale definizione di esperienza
che ci veniva ripetutamente citata presso l’istituto di Estetica dell’ateneo
bolognese: “quella infinita serie di relazioni tra ciò che diciamo io e ciò che
diciamo mondo”; così nella partitura più vasta espressa dalla neofenomenologia
critica che aveva in Luciano Anceschi un maestro esemplare. Nello stesso ateneo
si è formato anche Paolo Ruffilli, nome tra i più noti della odierna poesia
italiana, autore di numerose opere poetiche, ma anche esiti in narrativa,
biografie, curatele. “Le cose del mondo” si propone come un sorprendente
risultato frutto di un vero e proprio “work in progress” durato dal 1978 al
2019, parallelamente agli altri lavori dell’autore. Sempre e comunque con la
preoccupazione di mantenere un preciso filo conduttore in tutta la sua stesura
quarantennale, quale opera poematica di certosina attenzione verso il concreto
mondo delle cose, nei continui rimandi e rispondenze attraverso il linguaggio
poetico. Sì, per Ruffilli, la parola viene da lontano, da un’origine che chiede
ricerca ed esige un vocabolo poetico che si sceglie perché in quel caso non
sostituibile con nessun altro; che si carica di valenze tali da rendere la
parola, nell’occasione, necessaria. La particolare limpidezza del verso breve
caratterizza una scrittura che ha trovato riferimenti nell’opera di poeti come
Gozzano, Montale, Caproni, ma che, innanzitutto, continua ad assimilare le
preziose suggestioni che giungono dal sublime magistero dantesco. L’avvio è
dato dal tema del viaggio, il senso del rapportarsi alle dinamiche del moto (e
del mutamento) attraverso il contatto con i luoghi, gli spazi. “E’ proprio
andando che si capisce/ qual è il rovesciamento di ogni prospettiva./ Perché,
restando fermi, sfuggiva in pieno/ che è una questione del tutto relativa”
scrive l’autore, confermando una sua nitida perizia compositiva, inoltrata in
un dicibile qui però reso capace di oltrepassare l’osservazione iniziale,
consueta, ed elevarsi ad un timbro che cerca l’immaginosa verità della parola,
in attuazione di sensibili rimandi fonetici e severa accortezza nell’uso
calibrato della rima. L’elemento visivo si fa evidente confermando il dato e
nello stesso tempo superandolo per tendere ad un intimo significato che non
sarebbe stato possibile cogliere in modo così nitido, senza quella particolare
sosta linguistica. Ruffilli riesce a creare nella specificità di ogni singolo
testo un raro effetto d’equilibrio compositivo che sembra rispondere ad una
esigenza di ordine interiore, quasi frutto di una pratica di meditazione. Il
poeta si caratterizza nella osservazione minuziosa dei particolari, degli
aspetti anche quotidiani che, evidenziati, diventano indicazioni preziose di
rimandi a contenuti che lo sguardo consueto abitualmente non coglie. Così come
affondare il bisturi negli aspetti più intimi dei rapporti e dei ruoli, delle
temibili assuefazioni da evitare attraverso le vitali reazioni di quegli
stimoli che concedono rivisitazione fertile dei sensi aperti alla vocazione
interrogativa. Tanto più necessaria e terapeutica ci giunge questa poesia, in
una stagione epocale che ha da tempo sacrificato tutto l’ambito
dell’espressione umanistica a vantaggio di un’arida esaltazione tecnologica
finalizzata esclusivamente ad obiettivi economici. La parola poetica può, oggi,
anche se da un territorio liminare, esprimere la valenza teoretica di una
capacità d’osservazione che si fa conoscenza non del dato in quanto tale, ma
del suo significato più svelante, imprevisto e, di conseguenza, del suo destino.
E’ una consapevolezza di mistero ulteriore che abita la coscienza, anima un
pensiero che “ resiste alimentandosi di niente/ da quel che nel profondo
oscuro/ emerge, e sente di essere straniero.../ l’altrove, il cielo...il
trascendente”. Così si avvia un confronto serrato e filtrato anche attraverso
le cose quotidiane e materiche; enti presenti nella loro natura ontologica e
allo stesso tempo resi protagonisti dell’innegabile divenire insito nell’unità
dell’esperienza. L’umile bicchiere, ad esempio, “sbrecciato, andato in pezzi
dopo essere caduto./ La forma, incontenibile, di un contenuto”; oppure la
finestra “filtro di scambio tra il fuori e il dentro,/ tappo dell’immenso
espanso a dismisura”, o il letto “porto sicuro e perno del giorno/ che svolta
rapace, rotte le sponde/ nel tuffo, nel pozzo, in mezzo alle onde”. Tutto
acquista, in questo procedere, un tono sapienziale che rimanda ad intimità
ulteriori, a connotati rintracciabili solo superando nettamente il livello
della prima ricezione; evidenziando il nostro percepire negli aspetti che sanno
riconoscere l’elemento stesso quando si fa strumento, come negli organi del
corpo analizzati in una sezione del libro impostata come vero e proprio atlante
anatomico, rendendo il dato fisico protagonista di una pagina che ridisegna i
ruoli delle sue singole parti. Il centro è determinato da propulsione esigibile
e percettibilmente offerto dal flusso del linguaggio nella sua più composita
capacità di ricerca, pur all’interno del limite a cui siamo inevitabilmente ancorati
dalla nostra natura: “Ecco che di colpo riesco a dare/ corpo all’ombra, si
stacca la parola/ dal groviglio e dà forma al fantasma/ figlio del sogno che si
sveglia/ e respira il respiro della vita/ con il suo peso e con la
meraviglia...”. Paolo Ruffilli ci confida, con questo suo articolato lavoro, la
vocazione insita nella profonda maieutica che cura, reinterpreta e interroga le
cose del mondo.
Andrea Rompianesi
domenica 23 febbraio 2020
Daria Lapi, Rime Libertine, Menta&Rosmarino Editore, Caldana Di Cocquio (Va)
Con un’epigrafe apodittica di
Oscar Wilde (Non esistono libri morali od
immorali. I libri o sono scritti bene o sono scritti male) Daria Lapi ci
mostra la strada da percorrere per la sua nuova silloge poetica “Rime libertine”. Infatti, sebbene la
maggior parte dei lettori si rivolga prevalentemente al contenuto di un testo,
non può esistere poesia senza un’adeguata e corretta forma. Saremmo di fronte
essenzialmente ad un bel pensiero. Nulla più. Una lirica per essere tale, oltre
all’emozione che suscita, deve possedere una sua intrinseca musicalità. Non si
chiamerebbe lirica, altrimenti.Fatta questa premessa, d’obbligo
visto l’autorevole esergo, mi soffermerò innanzitutto sul sostantivo (rime) per analizzare nel prosieguo
l’aggettivo (libertine).
L’autrice utilizza in pratica quattro forme di metrica. La più usata è quella che insiste su quartine di endecasillabi. Troviamo poi il settenario ed il senario doppio. E infine il settenario semplice. Le rime sono in prevalenza o baciate o alternate e si possono considerare ad libitum, a discrezione della poetessa. Una vivisezione così certosina dei versi non vuol essere solo mera retorica. La forma infatti ha il preciso compito di alleggerire lo scritto rendendo maggiormente fruibile il contenuto. Oltretutto il modus operandi disvela una capacità poetica non trascurabile ed una facilità di scrittura non indifferente. Le quali cose, congiunte, fanno di Daria Lapi una scrittrice da non sottovalutare. Detto ciò vediamo dove ci conduce l’aggettivo “libertine”. E bisogna subito notare come la letteratura occidentale fin dalle origini abbia sempre avuto in sé una pagina a parte riguardante il microcosmo del sesso e dell’erotismo, vissuti naturalmente secondo le epoche e le filosofie imperanti. Se si pensa poi a quello straordinario libro della Bibbia che è il “Cantico dei Cantici” non possiamo sicuramente cestinare o relegare ad opera secondaria uno scritto che parla dell’amore carnale hic et nunc. Non sto a citare la cultura greca o romana, sicuramente in antitesi a quella cristiana, ma basta ricordare quei liberi pensatori, nati proprio nel seno della civiltà cattolica, che hanno contribuito a restituire all’uomo ciò che, per motivi qui non sindacabili, l’uomo aveva perso. Mi riferisco a un Cecco Angiolieri, a un Ciullo d’Alcamo, a Boccaccio, a Pietro Aretino, a Ruzzante, al veneziano Baffo, al nostro Carlo Porta, tanto per rimanere nell’ambito italiano: l’elenco è sicuramente incompleto e non esaustivo. Se però ci fermiamo alla superficie del termine libertine, sia pur con tutti i riferimenti sopra citati, non riusciremmo a comprendere fino in fondo il pregio di queste liriche che Daria Lapi ci propone. In effetti, le sue poesie sono un gioioso e spensierato percorso dell’eros in tutte le sue implicazioni e applicazioni. La sua franchezza e schiettezza ci allontanano da una non ben celata pruderie che, senza volere, potrebbe ancora abitare negli anfratti della nostra anima. La poetessa strizza l’occhio al lettore non tanto per trascinarlo a sé in una specie di captatio benevolentiae, visto che l’argomento è di quelli, anche al giorno d’oggi, tabù, quanto per ricreare il gioco dell’amore sensuale in tutte le sue sfumature. Ecco allora che nascono l’uccellulare, il lamento dell’onanista, la pillola blu, la cintura di castità e tante altre situazioni che descrivono in una specie di girotondo della ruota della fortuna l’abbandono e i desiderata del piacere. Ma non c’è solo spensieratezza e voglia di vivere – che sarebbe già tanto fra i poeti, poiché i componimenti dei più si inalberano sulle maggiori, insanabili e tristi malinconie, votanti al suicidio – bensì uno sguardo attento ai falsi moralismi, alle menzogne pubbliche che in privato diventano vizi, alla condanna di ciò che non è genuino e sincero: come l’eros, appunto.Citerò solo alcuni versi esemplari per non privare il lettore della bellezza e spontaneità di tutta la raccolta. Sentite qua: E’ meglio certo la masturbazione/ piuttosto che l’usanza di quei frati/ che, nel segreto della confessione, / fanno la festa ai giovani sbarbati. Oppure questi altri: Al giorno d’oggi capita sovente, / che qualcheduno non di primo pelo/ si creda ancora d’essere attraente/ anche se invero è tutto uno sfacelo. Od anche questa quartina tratta da “La cintura di castità”, e finisco: “Fatemi obliare tosto, Magnifica Eminenza,/ d’avere lungamente patito l’astinenza/ e dopo questo sfogo, con grande devozione/ vi chiederò di darmi la vostra assoluzione.” Rara avis, è il caso di affermarlo, questa silloge di rime libertine. Dal punto di vista formale la si può avvicinare ai classici rivisitati in un linguaggio moderno. Dal punto di vista contenutistico mi fa ricordare i versi finali di una canzone di Georges Brassens, tradotta in italiano da Fabrizio De Andrè e nel nostro dialetto da Nanni Svampa, a proposito di una prostituta che sale in paradiso: qualche beghino di questo fatto fu poco soddisfatto; dumà i bigott disen de no, la ghe va minga giò.
Enea Biumi
L’autrice utilizza in pratica quattro forme di metrica. La più usata è quella che insiste su quartine di endecasillabi. Troviamo poi il settenario ed il senario doppio. E infine il settenario semplice. Le rime sono in prevalenza o baciate o alternate e si possono considerare ad libitum, a discrezione della poetessa. Una vivisezione così certosina dei versi non vuol essere solo mera retorica. La forma infatti ha il preciso compito di alleggerire lo scritto rendendo maggiormente fruibile il contenuto. Oltretutto il modus operandi disvela una capacità poetica non trascurabile ed una facilità di scrittura non indifferente. Le quali cose, congiunte, fanno di Daria Lapi una scrittrice da non sottovalutare. Detto ciò vediamo dove ci conduce l’aggettivo “libertine”. E bisogna subito notare come la letteratura occidentale fin dalle origini abbia sempre avuto in sé una pagina a parte riguardante il microcosmo del sesso e dell’erotismo, vissuti naturalmente secondo le epoche e le filosofie imperanti. Se si pensa poi a quello straordinario libro della Bibbia che è il “Cantico dei Cantici” non possiamo sicuramente cestinare o relegare ad opera secondaria uno scritto che parla dell’amore carnale hic et nunc. Non sto a citare la cultura greca o romana, sicuramente in antitesi a quella cristiana, ma basta ricordare quei liberi pensatori, nati proprio nel seno della civiltà cattolica, che hanno contribuito a restituire all’uomo ciò che, per motivi qui non sindacabili, l’uomo aveva perso. Mi riferisco a un Cecco Angiolieri, a un Ciullo d’Alcamo, a Boccaccio, a Pietro Aretino, a Ruzzante, al veneziano Baffo, al nostro Carlo Porta, tanto per rimanere nell’ambito italiano: l’elenco è sicuramente incompleto e non esaustivo. Se però ci fermiamo alla superficie del termine libertine, sia pur con tutti i riferimenti sopra citati, non riusciremmo a comprendere fino in fondo il pregio di queste liriche che Daria Lapi ci propone. In effetti, le sue poesie sono un gioioso e spensierato percorso dell’eros in tutte le sue implicazioni e applicazioni. La sua franchezza e schiettezza ci allontanano da una non ben celata pruderie che, senza volere, potrebbe ancora abitare negli anfratti della nostra anima. La poetessa strizza l’occhio al lettore non tanto per trascinarlo a sé in una specie di captatio benevolentiae, visto che l’argomento è di quelli, anche al giorno d’oggi, tabù, quanto per ricreare il gioco dell’amore sensuale in tutte le sue sfumature. Ecco allora che nascono l’uccellulare, il lamento dell’onanista, la pillola blu, la cintura di castità e tante altre situazioni che descrivono in una specie di girotondo della ruota della fortuna l’abbandono e i desiderata del piacere. Ma non c’è solo spensieratezza e voglia di vivere – che sarebbe già tanto fra i poeti, poiché i componimenti dei più si inalberano sulle maggiori, insanabili e tristi malinconie, votanti al suicidio – bensì uno sguardo attento ai falsi moralismi, alle menzogne pubbliche che in privato diventano vizi, alla condanna di ciò che non è genuino e sincero: come l’eros, appunto.Citerò solo alcuni versi esemplari per non privare il lettore della bellezza e spontaneità di tutta la raccolta. Sentite qua: E’ meglio certo la masturbazione/ piuttosto che l’usanza di quei frati/ che, nel segreto della confessione, / fanno la festa ai giovani sbarbati. Oppure questi altri: Al giorno d’oggi capita sovente, / che qualcheduno non di primo pelo/ si creda ancora d’essere attraente/ anche se invero è tutto uno sfacelo. Od anche questa quartina tratta da “La cintura di castità”, e finisco: “Fatemi obliare tosto, Magnifica Eminenza,/ d’avere lungamente patito l’astinenza/ e dopo questo sfogo, con grande devozione/ vi chiederò di darmi la vostra assoluzione.” Rara avis, è il caso di affermarlo, questa silloge di rime libertine. Dal punto di vista formale la si può avvicinare ai classici rivisitati in un linguaggio moderno. Dal punto di vista contenutistico mi fa ricordare i versi finali di una canzone di Georges Brassens, tradotta in italiano da Fabrizio De Andrè e nel nostro dialetto da Nanni Svampa, a proposito di una prostituta che sale in paradiso: qualche beghino di questo fatto fu poco soddisfatto; dumà i bigott disen de no, la ghe va minga giò.
Enea Biumi
mercoledì 5 febbraio 2020
Paola Pansa - Il destino, il sogno. Genesi Editrice, Torino, 2019
La realtà poetica ha numerose sfaccettature.
Didascalicamente si può decriptare attraverso l’analisi, da tempo codificata,
in significato e significante. Ma si farebbe torto al lavoro di Paola Pansa se
si usasse solo questo criterio scolastico per esaminare la sua lirica. Parlo di
lirica al singolare perché la sua è una poesia che parte da un centro vitale,
quale può essere il mondo, e si incanala in tanti rivoli che hanno per oggetto
la scrittura e per soggetto l’uomo. O viceversa. Non ci si lasci ingannare
dall’io sempre insistentemente presente. Si tratta di un soggettivismo che si
irradia nel lettore e che al tempo stesso riflette come in uno specchio le
emozioni del momento. Insomma, “tutto è
finzione/ ogni cosa/ può essere altrove.” Che significa sostanzialmente
tradotto in prosa: attento lettore, non lasciarti ingannare dalle parole, vai
oltre, guarda più a fondo della mia scrittura, solo così potrai trovare un
segno o il segno della fruibilità dei miei versi. “E faccio dello scrivere/ il proiettile che esplode/ il grilletto
premuto a occhi chiusi/ che va dritto a colpire/ pagine e pagine di silenzio”. A
volte sembra che la Poetessa giochi e scherzi con noi. Ci introduce in un
labirinto dove ad ogni angolo sta scritto “uscita”
ma l’uscita non la vedi. Anzi. Ad
ogni uscita sta un’altra uscita e tu giri in continuazione, richiamato
anche da una scrittura ponderatamente ironica, a tratti parossistica, a tratti
icastica in cui il realismo si sovrappone e si coniuga al soggettivismo
estremo, dissacrante. “Ma sedendo e
mirando/ inconclusi silenzi/ il pensiero si posa/ su un nulla/ che non conosce
confini”. Al di là della citazione leopardiana, subito graffiata e forse
punita da quel foscoliano nulla infinito ed eterno, il lettore è colto da una
specie di girotondo adulterino che lo fa trastullare, come fosse un adolescente
disperso in rivoli di pensieri sul futuro, in una lotta dell’oggi mai spenta e
mai sopita. Siamo polarizzati in una combine magica e accattivante, rinchiusi
in un sogno che anticipa e posticipa. “La
mia rivoluzione/ non è un mulino a vento/ l’unica cosa che aspetto/ è che il
momento/ diventi maturo”. E a proposito del don Chisciotte, implicito
nell’ultima citazione, la complicità con il lettore diventa trasparente reità: “mi credo un nobile cavaliere/ do alla
realtà le maschere che/ più si addicono alle mie assurde/ e strampalate
imprese”. Quando ero piccolo amavo andare al Luna Park, salire su di un
veicolo autotrasportante ed entrare in un tunnel dove incontravo
successivamente spettri, scheletri, streghe, pirati e subdoli visi da forca,
venendone da una parte attratto e dall’altra respinto. Ne avevo timore, certo.
Ma ne ero pure calamitato. Mi pareva di vivere in un incubo, ma ero consapevole
della falsità di quel momento e di quegli individui indecenti, lontani dal mio
vero ambito quotidiano. Ecco: la poesia di Paola Pansa ti veicola in questo
mondo che oggi si direbbe virtuale perché apparente, dove però nulla sembra essere
vero. Sembra. Perché i dati della realtà appaiono falsi, scorretti,
irrimediabilmente insinceri. Eppure non è così. Come “il fumo della sigaretta/ crea suggestioni/ sul foglio/ che portano
ovunque”, così la scrittura per la Poetessa diventa la scusa per
confessioni e ammissioni. Non esiste altra possibilità per vivere se non nella
poesia e con la poesia. In un gioco di continui echi e rimandi i versi di Paola
Pansa hanno la sorprendente leggerezza di una volontà costantemente alla
ricerca di qualche misterioso segreto. Infatti “C’è un sempre/ che non trova posto nel tempo/ e vaga nella mente/
smarrito e solo/ come un avverbio/ che non ha frase pronta ad ospitarlo/ un
senso ignoto/ anche a se stesso/ un significato/ che tarda ad arrivare”.
Enea Biumi
Pasquale Balestriere, Assaggi critici, Genesi Editrice, Torino, 2018
Si riscontra in questa raccolta di Assaggi critici di Pasquale Balestriere una visione della
letteratura molteplice e variegata. Innanzitutto ho notato una conoscenza
profonda e puntuale dell’universo oraziano descritto con dovizia di
particolari, insistito su aspetti forse meno noti ma non privi di interesse per
un autore che al di là dei ricordi scolastici per molti, me compreso, non
rientra probabilmente nelle letture quotidiane. Per misurare le qualità della
sua introspezione critica basta menzionare i vari capitoletti in cui è
suddiviso il suo trattato su Orazio: l’uomo
e lo scrittore, il tema della femminilità, la filosofia oraziana, la religione
e il motivo simposiaco-conviviale. Ne esce un ritratto a tutto tondo di un
intellettuale romano del primo secolo a.c., che accomuna doti e difetti dal
punto di vista umano, ma che si eleva considerevolmente come scrittore e poeta.
Interessante risulta essere la disanima che l’Autore fa delle opere oraziane
intravvedendo e ricercando in esse i punti salienti da trascrivere e far
conoscere al lettore. Così vediamo un Orazio umanizzato a tal punto che ci
sembra quasi di averlo presente fisicamente, di osservarlo “basso, bruno, tendente alla pinguedine,
instabile, iracondo”, di vederlo combattere per farsi largo tra
l’intellighenzia del tempo, lui che era nato da un liberto e che per un
ventennio non era certo vissuto nell’abbondanza. Poi la svolta nel 38 a.c. quando
viene ammesso nel circolo di Mecenate. Ma una svolta che non inficia il suo
equilibrio, anzi lo rafforza. Gli stessi suoi amori risultano essere pacati,
sereni, trattati quasi superficialmente: si
direbbe che Orazio non abbia mai amato veramente. Ciò nonostante il
Venosino si circonderà di compagnie femminili, almeno così appare dai suoi
versi, per tutta la vita. Non mi dilungherò oltre per non togliere il gusto di
una lettura affascinante e accattivante, concretamente viva e densa, facile da
scorrere nonostante l’altezza e la profondità della materia e dell’uomo. Allo
stesso modo si svolgono le ricerche su altri autori un po’ più vicini a noi nel
tempo, quali Dino Campana, Giorgio Barberi Squarotti, Paolo Ruffilli, Pasquale
Festa Campanile, ed altri non meno importanti e avvincenti. Da ultimi, ma non
meno considerevoli, due saggi: uno sull’accento
nella traslitterazione del greco antico ed uno sulla poesia, che ci fanno comprendere, se ce ne fosse bisogno, di
essere di fronte ad uno studioso che non si limita a trascrivere o riferire
piccole porzioni di letteratura, ma ne compendia e ne approfondisce con rigore
e sensibilità tutta una gamma che va dal classico al contemporaneo, dalla
poesia alla prosa, dalla ortoepia alla riflessione sulle varie poetiche e sulla
loro validità in ambito sociale e moderno.
sabato 11 gennaio 2020
Nina Nasilli “Prossimità” (Book Editore,2019)
La valenza culturale è saggiamente determinata nel momento in cui sa dirsi prossima. Rinviene eccelsa e sedimentata nel vagito della sensibilità più acuta e divora con occhi dell’intelligenza. Le epigrafi di apertura avranno allora cenni biblici e classici. Qualcosa di vicino, nell’espressione del Deuteronomio, così come ciò che si separa e nuovamente si aggrega, secondo la voce di Eraclito di Efeso. Si avvia con un tono davvero alto la poesia del libro “Prossimità” di Nina Nasilli. E’ una corrente poematica in verticale che evoca assunzioni e svolte a contatto con un’ontologia imprevista...”si principia sempre da un caso/ come le cose che appartennero, il pensiero/ che le tocca”. La percezione deterge una pluralità di stimoli naturali e riferimenti intertestuali, quasi che il vigore della nitidezza filtrata possa annunciare imminenze e svelamenti, fremiti e passaggi, ferite e rifioriture, per citare un titolo che fu di Giuseppe Conte. Si sviluppa un flusso che accompagna nelle veglie di deserto, nelle radici profonde, tra memorie che irrompono e tenerezze che disarmano. L’umano contende al ritmo delle sillabe la potenzialità della scolta e l’attardarsi di un ritorno. Molti i riferimenti letterari e pittorici, da Arthur Rimbaud e Amelia Rosselli a Giacomo Balla e Umberto Boccioni, attraverso un intrecciarsi di stimoli e rimandi veicolati dall’intervento di strofe, successioni, timbri anaforici. La sezione “Mente cordis sui” si apre con una citazione da Pessoa e deterge con particolare grazia la prossimità di un sentimento amoroso, per merito della domanda di “un poco di immortalità/ soltanto un petalo/ dorato/ dal sole di un tramonto/rosa”, poiché si evidenzia che “né sempre né mai il presente è adesso”, nel porsi sospensioni che coinvolgono Bellezza e Spirito, accolgono le compostezze della conciliazione, filtrano e interpretano le ferite primaverili, coinvolgono accenni ad Eliot e Whitman, e su tutto cala poi una passionale intenzione di purificare la colpa da noi partorita, comprendere come potrebbe essere chiamare non più profano ciò che è stato reso sacro, separato dal limite. Ma allora davvero, a differenza di quanto viene sostenuto dai vari percorsi intrisi di materialismo,nessun evento solo umano può dirsi assoluto; così come non c’è esito di salvezza nel solo alveo immanente. Anche ogni traccia di prossimità implica comunque la conoscenza dell’ente che s’incontra, e ciò attualizza la stringente necessità di una rinascita metafisica già attuatasi, tra l’altro, nei primi anni Duemila e più specificamente e sorprendentemente in ambito analitico (ma non solo, se pensiamo ad un’opera come “Il frammento e l’Intero” di Carmelo Vigna). Gli enti prossimi rimandano al senso più profondo di un essere che sa dirsi Essere e può nominare, chiamare a sé le cose, rivelarne la partecipazione. Nina Nasilli si muove con acutezza e perizia “tra una certezza/ di finalmente esistere/ e un’altra”, dove sia infine un’acqua di valenza intima e nello stesso tempo emblematica, a lavare dai lutti; a rigenerare le vicinanze patite o desiderate, nella sensazione tutta interiore ma resa visibile dalla scrittura, di un’anima capace di vedere la notte con occhi non corporali, come rappresentò nel brano di un suo testo John Williams. La sezione “Appunti di viaggio in Amore” coinvolge la potente forza evocativa de “Il libro dell’inquietudine”. Ancora Pessoa, dunque, per inseguire le tracce di prossimità nella coscienza (o incoscienza), scrive Nasilli nelle note, di chi ci ha preceduto. Dimora delle attese possibili, riferirsi all’altro, “prestando l’attenzione dovuta, però/ a questo giocato tra-passare/ che non sia come l’incertezza scoperta/ del bianco d’azzardo/ su una tela grezza d’indugi”; l’autrice si spinge oltre, verso un’acquisizione in tonalità allitterante: “non avverte vertigine/ chi non sfida il vertice:/ fondato così un nuovo Regesto”, un raccogliere quindi, citando l’opera antologica del poeta Massimo Scrignòli. Il percorso strofico in asimmetriche tramature inerpica il dissidio a contrastare passività improprie, volendo determinare invece un’ermeneutica panica, simbolica, evocante il destino maieutico della poesia più duttile e più fertile, quando diviene autentico strumento di conoscenza, nostro scopo antropologico, come affermava Brodskij. La sezione “Domenicali bianchi” è pervasa da ulteriori riferimenti biblici, in particolare dal Libro dei Salmi, in richiesta d’attesa e di sacro avviamento verso auspicio di domanda e confessione...”e dopo i corvi i crocali/ le cornacchie cumane/ i rovi i campi/ dopo i bivacchi i falchi/ le cattedrali”; poi la pagina si fa doppia, intesse un controcanto riflesso che indaga la separatezza rilasciata dalla dialogante ripercussione estensiva apparente quasi come finalità corale, attraverso il pudore, che non è timore, di concedere spazio ad una inquietudine che pungola caparbia e si rinnova, si rispecchia. Il desiderio è oltre, è grato, chiede “che tutto duri/ che tutto sia/ stare a guardarsi/ e-non mancarsi”. Assistiamo, dunque, ad un vero teatro di personaggi che veicolano stimoli culturali innestati nella passione dei sentimenti, nella prerogativa poetica di richiamare alla testimonianza l’accortezza più vigile assorbita dalla pagina nella nudità intima del testo che rinnova riferimenti al “cuore travestito” di Paul Celan e all’amore impossibile espresso da Marina Cvetaeva. Affiora forse, tra le righe, una liminare disillusione? Una traccia di tremore al rischio d’incomprensione? Se l’assenza è, per Nina Nasilli, di noi la più certa prossimità, un passo inatteso potrà forse condurci verso la visibilità di una poesia filologicamente creativa perché liberata dai lacci del solo dicibile, attraverso un ulteriore, sofferto, estremo confronto col Tempo: “ma se tu sei notte/ io, l’ultimo baluginio del giorno/ prima che sia sera”.
Andrea Rompianesi
Guido Bertini: una vita controccorrente
C’era, nella Milano degli anni venti-trenta, un
critico teatrale toscano, severo e spesso parziale, che giudicava quasi sempre
negativamente le commedie del Bertini. Il commediografo volle allora prendersi
la rivincita e in un lavoro dal titolo “Il
delitto di via Spiga” (1) inserì una battuta acida
contro il critico toscano: “On toscano a
Milan o el vend la castagnaccia o el fa el critico d’arte”.
Alla prima rappresentazione Anna Carena(2),
che era la responsabile della compagnia teatrale, fece togliere quella battuta,
ritenuta troppo audace, sarcastica, forse offensiva. Il commediografo, alla
fine della rappresentazione, andò come una furia nel camerino dell’attrice e
gliene disse di tutti i colori. Ritenne quella censura un tradimento da parte
della Carena stessa. Volle sapere perché fosse stata tolta la battuta, accusò di
irresponsabilità l’attrice, le tolse la fiducia, il saluto, la stima. Cosicché
nella seconda rappresentazione Anna Carena reintrodusse quella battuta ed il
teatro reagì con grandi risate ed applausi scroscianti. Evidentemente il pubblico
stava dalla parte di Bertini. Naturalmente, alla fine di questa seconda
rappresentazione, il commediografo si ripresentò nel camerino dell’attrice
omaggiandola di fiori e di sentite e sincere scuse per le intemperanze sue
precedenti.
Questo episodio, che mi è stato raccontato
personalmente dalla stessa Anna Carena, può far intendere quale fosse il
carattere di Guido Bertini e la sua notorietà all’interno del pubblico teatrale
milanese. Artista e uomo di spirito, qualità ereditate dal padre Pompeo, Guido
sapeva riconoscere il merito, conosceva il suo pubblico e soprattutto
rispondeva in prima persona di quello che affermava. Affrontava, come si è
visto, con grinta e di petto gli inconvenienti e le avversità della vita. Fin
da giovane, per esempio, amava cimentarsi con la scrittura, ma alcuni versi che
fece circolare gli valsero una perquisizione poliziesca(3) , che lo defraudò per sempre dei molti versi
dialettali da lui scritti e conservati.
Ma non fu solo il teatro la passione e l’interesse del
Nostro. Anzi. Il suo approccio artistico iniziò con la pittura: e
specificatamente con la pittura su vetro.
Milanese di nascita (1872) varesotto d’adozione (1907)(4)
Guido era discendente da una famiglia che per tradizione eseguiva pittura
su vetro(5). Ma la muffola per la cottura del vetro che il nonno
Giovanni aveva impiantato in via Guastalla a Milano disturbava e non poco con i
suoi fumi maleodoranti e tossici i vicini di casa. Per questo motivo Guido
decise di trovare una sistemazione più adeguata al suo lavoro. E la trovò a
Luvinate nella cascina Nicò alla Zambella, battezzata ironicamente “Villa
Anzone”. Qui si dedicò alla sua arte e qui, negli anni del primo novecento
divenne ritrattista riconosciuto ed in seguito, negli anni venti e trenta, commediografo
rinomato.
I suoi ritratti sono per lo più raccolti in collezioni
private(6), ma alcune tele le possiamo ammirare anche a Villa
Mirabello. In alcuni di quei dipinti Bertini sottolinea non solo il carattere
del personaggio ritratto bensì l’ambiente che lo circonda, attraverso sfondi
che ne fanno intuire la locazione sociale. E sono specchi dorati, ampi e
confortevoli divani o caminetti. In altri ritratti le figure risaltano per se
stesse, nel loro aspetto psicologico e umano. In tutti si nota il realismo di
fine ottocento, sicuramente non fine a se stesso e comunque sempre attento a
raffinarsi e mai ripetitivo.
Per questo, una volta insediatosi in quel di Luvinate
e trascorrendo il suo tempo libero a Varese, ben presto entra in contatto
con il panorama culturale varesino di quegli anni e diventa amico e sodale con
i pittori De Bernardi e Montanari, lo scultore Scola e il poeta Speri Della
Chiesa(7), diventando socio degli Amici dell’arte.
Tralasciando l’arte poetica di cui ci rimangono solo
alcuni sonetti(8) mi soffermerò ora sulle caratteristiche della sua
opera teatrale che ha avuto, ed ha tuttora, parecchio seguito, soprattutto tra
le compagnie dialettali amatoriali.
Quando nel 1923 viene
messa sulle scene
la prima commedia
del Bertini(9),
il teatro dialettale Milanese
era in una fase quasi
di completo stallo.
Erano scomparsi, infatti,
i grandi nomi di Cima, Cletto Arrighi,
Bertolazzi, Ferravilla, Illica,
Sbodio, Giraud. Ma la ricostruzione non tardò ad arrivare anche grazie al Nostro. Tra l’altro l’impiego del dialetto gli fu provvidenziale. Fu una scelta culturale e
politica al tempo stesso. Non fu però una posizione ideologica la sua, bensì
artistica.
L'uso del dialetto gli derivava dalla sua esperienza quotidiana
(nonchè dagli amici che lo circondavano e lo spronavano – in primis Speri Della
Chiesa) formava un tutt'uno con
la sua esistenza e con la sua
biografia: sua e dei personaggi delle sue
commedie. Il vernacolo gli permise la
garanzia di un giudizio libero e illimitato.
E qui ritorna quello spirito giovanile di fine
ottocento. Tanto è vero che il protagonista – Tecoppa(10) – diventa
eroe degli antieroi, secondo quello che lo stesso Porta sosteneva: la vera
scuola era il Verzee, non più la parola, come lo era per alcuni scrittori
contemporanei(11), ma la strada, il bistrot, la gente. In effetti il
suo Tecoppa è un Andrea Sperelli in negativo. Sperelli nasce all’interno di
un’aristocrazia estetica ed elitaria, che si esalta in sublimi Erodiadi,
Tecoppa invece vede la luce nelle taverne, fra ladri, ruffiani e prostitute e
si circonda di pittori che trovano la loro ispirazione in semplici e vivaci
Muffette, illustre sconosciute.
Certo, Bertini non fu il primo a valersi del dialetto.
Non fu l'unico. Ma è proprio
nel dialetto che si ritrova la misura
e la
forza del suo spirito combattivo, estroverso,
caparbiamente originale, attento e duttile nel dar valore agli avvenimenti e alla persone.
Così lo descrive suo cugino Enrico: “uno spirito d'osservazione
acutissimo, una spiccata tendenza alla caricatura e alla satira
(tendenza che è, posso aggiungere con cognizione di causa, forse
una dote, forse un difetto,
ma certamente endemica nella famiglia
Bertini), fanno sì che i suoi personaggi gli nascano
nella mente perfetti, vivi, completi, colla
evidenza della più nitida fotografia; così che (lo dice egli
stesso) prestabilita la tela della
Commedia e messosi al tavolino, il dialogo sgorga
come l'acqua sotto
pressione da un rubinetto aperto”.(12)
Un rubinetto aperto, sicuramente. Ma che le autorità
del tempo tenevano, come d’uso, sotto controllo. Proprio nel dattiloscritto del
Tecoppa, sulla prima cartella, ben visibile si legge: “Visto. Si autorizza la rappresentazione” Il timbro è della
sottoprefettura di Varese. La firma del sottoprefetto. La data non si legge(13).
Ma un rubinetto dove “balza il carattere
completo di questo popolo (milanese) rude e bonario, espansivo se pur alieno da
ogni sdolcinatura, arguto, non raffinato ma sempre generoso, franco e leale;
qualità che si riflettono anche nella sua più genuina parlata, aspra e
potente.”(14)
Non per nulla l’attenzione di un critico importante
come Renato Simoni non si fa attendere. Fin da subito ne dà un giudizio
positivo, anche se non esaltante. Indubbiamente Bertini non è il principale
protagonista della commedia italiana: ne è semmai uno dei protagonisti, sia pur
appartato in una scrittura che vuole riportare i personaggi alla dimensione
reale. In una dimensione che dà spazio ai tradizionali caratteri e valori della
commedia italiana. Vale a dire: la maschera, l’imbroglione, il povero, il
pazzo, il ladro, l’ingenuo, l’onesto, il vero religioso ed il ‘tartufo’, la
serva padrona, la moglie sottomessa. Il tutto sottolineato o meglio inquadrato
in uno spazio comico, a volte sarcasticamente amaro, a volte ironico, a volte burlesque tout court.
E il comico è l’elemento che lega ogni sua commedia.
Il filo rosso che fa riconoscere Bertini commediografo brillante e divertente,
secondo quella massima antica che dettava: castigat
ridendo mores. “Ma scrivv di comedi alegher
– dice il pittore Brugnetti
al tragediografo e necroforo
Squassi ne El delitt de via Spiga –
che la gent la ven a
teater per desmentegà i so cruzzi e minga par caragnà a pagamento!”.
E pare proprio essere lo scopo e il fine del lavoro del Nostro questa
scrittura divertente.
Ne El diavol el fa i so pass(15)
Bertini si permette il lusso di scherzare con la burocrazia.
“All'inferno non può mancare la burocrazia in quanto è
un atroce tormento dell'umanità. Come non possono mancare la Radio, l'arte del
Novecento, i ragionieri intellettuali e le discussioni sulle partite di footbal. Lo diceva anche
il Divino Poeta: nuovi
tormenti e nuovi tormentati”.
Sempre nella stessa commedia un fotografo esploratore
si presenta dicendo di aver vissuto tanto “cont
i miliardari american che spendeven un patrimoni, come coi selvaggi
delle isole Flegee che gh 'hann
l'abitudin stranissima de mazzà e de
mangià i so parent quand diventan vecc.... Infatti “giò là te vett magari a fa visita in d'ona
famiglia e te ghe domandet: "Come sta el papà?" "L'è su
ch’l cos” risponden". "La mama?" "L'hann fada andà
ier cont i erbion!"”.
Logicamente i suoi personaggi vanno inquadrati nella
mentalità del tempo. Non poche battute di Guido sono, ad onor del vero,
maschiliste per la mentalità moderna. Ma anche queste appartengono al
personaggio di Bertini che, seduto ad un tavolo sotto i portici, che oggi vanno
sotto il nome di Corso Matteotti, apostrofava l’allure di una giovane donna così: che bell’andare di corpo che ha signorina.
Ne El delitt de via Spiga quando
si rimprovera al medico di aver redatto un certificato di morte per una defunta che risultava invece sana e
vegeta, lo stesso così risponde: “Se gò da savè mì. Ho vist che la parlava pu; e quand
ona dona la parla pu, al voeur dì che l'è morta”. Lo stesso dottore, un po' becero per la verità,
insiste e si difende dicendo: “Ma come l'è mia morta?
Gò perfin
fatta la dichiarazion” Al che la presunta morta dice: “Lù al fa semper ul bamba sui scal, ma de
dichiarazion a mì ma n'ha
mai faa”.
In Pronta cassa(16)
il professor Livio Fontanella dà un consiglio ad un suo carissimo studente,
Nino Caccialanza, vivo per miracolo dopo un tentato suicidio causato da una
disillusione d'amore. “Se dev ragionà
e concepì l'amor in d'ona
manera sana e positiva, senza i
morbosità della letteratura de cent ann fà. Te set no che Werter e Jacopo
Ortis hann impienì i cimiteri de giovinott pussè dell'artiglieria in l'ultima
guerra?” E ancora: “L'amor l'è una merce come un 'altra.
Come po vess el vin,
la marmellada ... Merce gustosa
che ne procura on godiment. E el godiment bisogna pagal”. Infatti
secondo il professore: “Tutt i donn ciappen danee, basta daghen ... L'è
question de tariffa”. E per di
più “i donn quand gh 'ann on
mort al sò attiv, alzen la tariffa con quel
che venn dopo!”. Perché “L’è onest quell che disi e l’è iniquo pagai
no i donn… Pensa ai spes che incuntren i donn per piasegh ai omen. Spès
d’impiant, spes de esercizi, spes de manutenzion”.
Sono cambiati i tempi, è vero. E’ cambiata la
mentalità. Sono cambiati i costumi. Ma “El
zio matt”(17) rimarrà sempre nella nostra mente come colui che
ha la capacità di trasformare i sogni in realtà. Che giudica secondo giustizia
e non secondo interesse. Così come l’Isolina ne “La man in del foeugh”(18), una serva padrona
che arriva addirittura, in combutta col suo amante, a rubare al padrone. Né
possiamo dimenticare il personaggio di donna Valeria de “L’anima travasada”(19), ingenuamente amante,
ingenuamente persa, ingenuamente raggirata, prima da uno pseudo spiritista, poi
da un concreto bottegaio. Non per nulla questa commedia vinse il primo premio.
Ecco spiegato allora il perché di Bertini come
commediografo controcorrente. Le sue commedie, anche se di sapore ottocentesco
– questo è indubbio – apportano una visione della società che non era
sicuramente quella ufficiale dei suoi anni. E Guido stesso insiste nel dramatis personae a sottolienare come la
trama si svolga ‘ai giorni nostri’.
Proprio perché vuol dare una svolta a quella società patinata che andava per la
maggiore, ma che maggioritaria non era.
Controcorrente, dunque come commediografo, ma
controcorrente anche nella vita. Forse per questo non era molto amato proprio
da quelle persone che lui stesso difendeva sul palcoscenico. I suoi compaesani
lo vedevano al di fuori della realtà, non ne capivano l’atteggiamento, lo
osservavano da lontano con malcelata diffidenza, lo schivavano come fosse un
pazzo. Proprio come quello zio matt
che fa del bene senza essere né frate né
prete. I famigliari dello zio matt
infatti non lo comprendono. Non lo vogliono. E’ al di fuori della loro portata.
Al di fuori di tutto. Così come Guido non era compreso dai suoi concittadini
perchè al di fuori da ogni schema prestabilito. E si sa come una civiltà
contadina, qual era quella di Luvinate nella
prima metà del Novecento, sia radicata alle tradizioni e al passato.
Bertini, e quella sua anima contestatrice innata, ci
lasciò il 3 giugno 1938(20), ma le sue commedie e i suoi dipinti
rimangono a testimonianza della sua arte. “Se
ne era andato silenziosamente – scriverà l’amico Montanari – come quando scompariva alla svolta di uno
dei vicoli di Varese, alla ricerca di qualche nuovo spunto per il suo umorismo.
Non lo avremmo mai più rivisto aggirarsi per i vecchi portici, curvo,
trasandato, col cappellaccio sulla nuca, quasi piccola beffarda feluca che
lasciava sfuggire il ciuffetto di capelli incollato sulla fronte napoleonica,
impugnando il nodoso bastone dietro la schiena come lo scettro di una dinastia
ormai scomparsa: quella dei fertili ingegni. Ma il suo amore alla natura e il
suo temperamento schivo ai compromessi sociali l’avevano condotto nella calma
solitaria e scontrosa del suo rifugio agreste.”
Controcorrente, appunto.
Enea Biumi
Note
1)
“El delitt de via Spiga”. Tre
atti. Commedia giallastra. Sui cartelloni il titolo appare in italiano “Il delitto
di via Spiga”, a causa degli
ordini emanati dall'allora regime fascista che proi biva ogni manifestazione teatrale in
dialetto. Ma cambierà solo la facciata, cioè il titolo, rimanendo in vernacolo tutto il resto.
A portare sulle
scene la commedia, rappresentata per
la prima volta nel 1934 al Teatro di Porta Venezia, sarà la compagnia di Anna
Carena, che avrà al suo fianco i bravi : Ravel, Feldmann, Rinaldi,
Zeni, Allegranza, Zanoletti e Granata.
La commedia, satira del genere “giallo” già allora imperante, otterrà molti consensi. Verrà ripresa nel 1944 da Giuseppe Adami, che guiderà la Compagnia Città di Milano. Nel 1948 “El delitt de via Spiga” viene
rappresentata all'Olympia, nel 1949 all'Excelsior (regia di Nino Besozzi), nel
1956 all'Odeon con la Compagnia del teatro Milanese guidata da
Luciano Ramo.
2)
Anna
Carena, nome d'arte di Giuseppina Galimberti (Milano, 30 gennaio 1899 – Milano, 15 aprile 1990), ancora
adolescente debutta in teatro, contro la volontà del
padre, nella Compagnia di Annibale Betrone. Alla metà degli anni '20 recita con Luigi Chiarini e Uberto Palmarini.
Alla fine del medesimo decennio è prima attrice con Leo Garavaglia
e Franco Schirato,
poi ancora prima attrice nel teatro dialettale milanese il Principe,
affermandosi come una delle maggiori interpreti di testi in dialetto meneghino.
Nel 1933 ha una propria compagnia sempre di prosa lombarda, poi si occupa di
teatro delle marionette al Caffè Campari. Nel 1941, debutta nel cinema in Piccolo mondo antico, regia di Mario Soldati. Reciterà poi in
circa 30 pellicole dove apparirà quasi sempre in piccole parti di caratterista,
diretta prevalentemente da grandi registi.
3) Era il 1898.
Milano viveva in un clima generale di tensione. Il 6 maggio verso mezzogiorno,
la polizia arresta sindacalisti e operai. Nel pomeriggio di quella stessa
giornata, il governo affida i pieni poteri al generale Bava Beccaris, decretando lo
stato d’assedio della stessa città. Due giorni dopo i cannoni aprono il fuoco
contro la folla. Restano uccise centinaia di persone e oltre un migliaio di
feriti più o meno gravi. Il 9 maggio vengono sciolte associazioni e circoli
ritenuti sovversivi, arrestate migliaia di persone e soppressa la stampa
d'opposizione. Quegli avvenimenti fecero
però dimettere il ministro degli
esteri
Emilio Visconti
Venosta,
successivamente si dimise tutto il ministero di Rudinì.
4) Nel 1907 Guido
Bertini prende residenza a Luvinate
5)
Uno
dei primi lavori, che Guido eseguì insieme col padre Pompeo, fu la
ristrutturazione delle vetrate del Duomo di Milano. In una di quelle vetrate
(sulla sinistra dell’ingresso principale) pare che Guido imprestò il volto
della moglie Rosa per ritrarre Santa Tecla.
6)
Si
veda a tal proposito il Museo on line della Fondazione Macchi e dell’Ospedale
di Circolo in artevarese.com
7) Questo il ritratto bonario ma
del tutto centrato che l’amico Speri Della Chiesa fece di Bertini:
Pittor, poëtta e, on temp, fin vedriee,
l'avriss poduu mett su de fa 'l
grappatt,
tant l'è 'l spiret ch'el gh'ha in del fagh adree
a la gent, con la
lengua, el so ritratt
Per toeuss
foeura del mond, l'è andaa a casciass
tra i
"praticei coi càper e i coroll
di fior agrest"
d'on sit sora a Barass
che per andagh,
se ris'cia l'oss del coll.
(tratto da “Varés di temp
indrée” a cura della Famiglia Bosina con prefazione di Clemente Maggiora,
Edizioni Lativa, 1993)
8)
Ecco
un esempio gustoso e spiritoso di uno dei pochi sonetti rimasti di Guido
Bertini:
Al cavalier Bonecchi, con mezza donzena de formagitt de cavra
De quand me son ridott a fa el massee
E a viv in tra i boasc e la pollina,
Se voeuri fa on regali de roba fina
Ciappi gèner de stalla e de pollee.
Lù el me dirà che, per sparmì danee
Tratti i amis cont i scart della
cusina,
Ma,
quand el saggiarà
sta formaggina,
El dirà pù che l'è on regall a pee.
El merit l'è di càver che gh'hoo su
Che me procuren tutt sto bell
formagg:
El savor, poeu, le ciappa de per lù,
A pocch a pocch, cont el diventa
vecc,
De mì ghe metti: quatter gott de
cagg.
E la fadiga de tiragh el
pecc!
(Paolo Bonecchi era un capocomico che
rappresentò quasi tutte le commedie del Bertini)
9)
“El Tecoppa
Istitutor”. Tre atti
rappresentati per la prima volta al Teatro Sociale di Varese, nel 1923, dalla
Compagnia Teatrale Accademia Varesina
di recitazione. Tra i
protagonisti si ricorda il dilettante varesino Angelo Orimbelli, nella parte
del Tecoppa, che fu lodato
anche da Renato
Simoni sul “Corriere della sera”. Il 19 dicembre 1930 al Teatro di Milano per
opera della Compagnia Bonecchi verrà rapresentata la stessa
commedia rimaneggiata col titolo “Osteria
della Scaletta”
10) Il
nome di Tecoppa lo eredita da Ferravilla. Ma nella commedia del Nostro il
personaggio viene liberato da quella struttura espressionistica, a volte
cabarettistica, quasi sempre macchiettistica, che aveva caratterizzato il
grande attore. Il Tecoppa di Bertini diventa un antieroe per eccellenza:
truffatore, imbroglione, ladro, privo di scrupoli, ma, allo stesso tempo,
generoso coi diseredati ed i più deboli.
11) Si
pensi a D’annunzio, o allo stesso Fogazzaro, sotto un certo punto di vista.
12) Prefazione
a “L’anima travasada”, edizione La
famiglia meneghina, Milano, 1932
13) In
una nota del prefetto di Como inviata al Ministero in data 29-12-1923 si viene
a sapere che le autorità del tempo avevano un occhio speciale per Guido
“dilettante scrittore”, pittore e
consigliere della sezione repubblicana di Varese
14) Orio
Vergani, Fortunato Rosti (a cura di) Teatro milanese, Parma 1958
15)
“El diavol el fa i so pass”. Tre
atti. Viene rappresentata per la prima volta nel 1935 al Teatro Principe di Milano
sotto la direzione di
Paolo Bonecchi. In seguito verrà proposta
anche al Teatro Sociale di Varese. La commedia non
ottiene molto successo.
Soprattutto la critica
rimarrà insoddisfatta del lavoro. Bertini darà la colpa dell'insuccesso all 'incapacità interpretativa di alcuni
attori della Compagnia Bonecchi. Molto probabilmente la motivazione
dell'incomprensione era dovuta al contenuto, troppo “rivoluzionario” per quei tempi. Anche questa commedia viene presentata nei
cartelloni con il titolo in italiano:
Il diavolo fa i suoi passi.
16)
“Pronta cassa” Tre atti. È
l'ultima novità del 1932 che la Compagnia di Bonecchi presenta al Teatro Principe. Tra i protagonisti la
brava Anna Carena. Il pubblico accoglie il lavoro con grandi risate e applausi.
La critica rimane piuttosto indifferente, se non negativa: contesta il
contenuto, a suo giudizio, troppo
“pesante”. La commedia viene ripresa nel 1962 da Carlo Colombo che ne
cura la regia portandola sulle scene del Gerolamo di Milano il 10 luglio dello
stesso anno con la Compagnia Stabile del Teatro Milanese.
17)
“El zio matt”. Tre atti. Viene rappresentata il 25 febbraio 1932 per
la prima volta dalla Compagnia Paolo Bonecchi al Teatro Principe di Milano.
Accolta favorevolmente dal pubblico e dalla critica, giudicata commovente e
divertente allo stesso tempo. La commedia avrà successo anche nel dopoguerra e
terrà cartello a Milano tra le compagnie dialettali per circa un decennio.
Inizia a riproporla per il pubblico milanese la Compagnia del Teatro Milanese,
diretta da Luciano Ramo: è il 10 luglio 1956, al Teatro Odeon. Nell'estate del
1958 verrà portata al
Manzoni sempre dalla stessa Compagnia, che
avrà in programma
“El zio matt” anche
per l'anno successivo. Nel 1961 sarà la regia di Carlo Colombo
a portare sulle scene del Gerolamo
la commedia del Bertini. Elio Crovetto (genovese) prenderà il posto di Mazzarella.
Al Gerolamo la commedia
rimarrà in cartello
fino al 1965. Nel 1967 la Compagnia del Teatro Milanese appronta una
modifica al testo originale del Bertini. “El
zio matt” diventa pertanto “Il
ritorno del zio matt”. Mattatore incontrastato è Elio Crovetto, la
regia sempre di Carlo Colombo, il teatro
dove viene messa in scena per la prima volta è l'Odeon. La critica accoglie con
favore la riduzione-adattamento del testo bertiniano, adeguato “giustamente”
alla diversa personalità del Crovetto.
18) “La man in del foeugh”. Tre atti dedicati all'esimia attrice Eugenia
Tavoni. Rappresentata per la prima volta il 20 marzo 1931 al Teatro
Principe di Milano dalla Compagnia Bonecchi.
Incontra favori di pubblico e di critica. Renato Simoni sul “Corriere della Sera” loda la sua fluidità nel
discorso e la sua sostanza comica. La commedia verrà ripresa nel dopoguerra e
data al Manzoni di Milano dalla
Compagnia di Luciano Ramo nel 1958.
Anche la Compagnia Stabile del Teatro Milanese porterà sulle scene milanesi “La man in del foeugh”, sotto la direzione di Angelo Frattini: siamo
nel 1960, al Teatro Pavoni di via Giusti.
19)
“L’anima
travasada”.
Tre atti. Nel febbraio del 1928 si classifica terza ad un concorso indetto
dalla Famiglia Meneghina per una commedia in dialetto milanese. Vince Lire
1000. Un anno dopo, il 19 novembre 1929, viene messa in scena dalla Compagnia
Bonecchi al Teatro Principe di Milano. Oltre che al Teatro Principe il Bonecchi farà conoscere “L'anima travasada” anche all'Apollo di
Lugano (1933) e al Rossini di Torino (1934). La critica ed il pubblico accolgono il lavoro molto favorevolmente.
Renato Simoni sul “Corriere della sera” afferma che la commedia passa “dalla
festevolezza scanzonata alla satira”. “Graffia acerbo, con una certa rabbia
incisiva”. “Ha un lieto sapore di burla: burla che è tanto più matta quanto si
dà l'aria di essere, nei particolari e nel dialogo, cinica”. E Pio De Flavis
ribatte sull'”Ambrosiano” che la commedia “rivela, fin dalle prime scene, una
fresca e scanzonata invenzione; si può prevederne i movimenti e il succedersi
degli episodi, ma nell'attesa non c'è quella stanca indifferenza che provocano
spesso le commedie del genere”. Il 2 marzo 1961, al Gerolamo di
Milano, la Commedia viene ripresa e portata in scena dalla Compagnia Stabile
Milanese. Verrà data, sempre dalla
stessa Compagnia, anche al Manzoni. La
regia è di Angelo Frattini.
Fra gli attori: Revel, Mazzarella, Allegranza, Celani, Pogliani,
Montini. “L'anima travasada” è
l'unica commedia di Bertini edita.
Della pubblicazione se ne è occupata la
Famiglia Meneghina nel 1932, con prefazione di Enrico Bertini, suo cugino.
Orio Vergani e Fortunato Rosti l'hanno ripubblicata e brevemente commentata
(importante il glossarietto accompagnatore) in “Teatro milanese”, Parma, 1958.
Tradotta in bolognese col titolo “Un'anma
tramudà”, venne rappresentata
con grande successo
dalla Compagnia di Angelo
Gandolfi.
20)
Mi
piace qui ricordare un sonetto che Speri della Chiesa dedicò al funerale di
Guido:
Hoo assistii propri incoeu, su a
la "Zambella",
dessora de Luinaa pocch men d'on
mia,
a ona
fonzion de mort pur
anca bella
tanto pienna, che l'era,
de poesia:
sott ai castan, poggiaa su la barella,
on còffen
senza ornaa de fantasia
cont dò
cander e on ciuff de ginestrella.
L'era el
pittor Bertin, che andava via.
Come càmera ardenta, el castagnee …
el ciel seren sperlaa per balducchin
...
e l'erba che faseva de tappee
...
On pret e on cereghett col
sidellin
s'hinn inviaa con tanta gent adree
per
compagnà 'l poer mort
al sò destin.
on rossignoeu
el cantava apòs, sconduu,
per saludà anca lù l'amis perduu! !
1938
(tratto da “Varés di temp
indrée” a cura della Famiglia Bosina con prefazione di Clemente Maggiora,
Edizioni Lativa, 1993)
LE COMMEDIE DEL BERTINI (a
fianco la dta della prima rappresentazione)
El Tecoppa
istitutor (1923)
El menagramm
(17 novembre 1924)
On quader
antigh (20 maggio 1926)
L’anima
travasada (19 novembre 1929)
La miee bruta
(3 gennaio 1930)
L’osteria
della Scaletta (19 dicembre 1930)
Bottega di
bellezza - atto unico – (19 dicembre 1930)
La man in del
foeugh (20 marzo 1931)
El zio matt
(25 febbraio 1932)
Pronta cassa
(1932)
El delitt de
via Spiga (1934)
El diavol el
fa i so pass (1935)
L’animale di
controllo – tradotta da Severino Pagani diventa On animal de control (5 gennaio
1963)
BIBLIOGRAFIA
GUIDO
BERTINI, Commedie dialettali (a cura della Filodrammatica “F. Volonterio” di
Luvinate) con note biografiche di Natalina Conti Avigni e Introduzione di
Giuliano Mangano, Nicolini Editore, Gavirate, 1985
GUIDO BERTINI - L'anima travasada , ed. La Famiglia Meneghina Milano, 1932 (presentazione di
Enrico Bertini).
ORIO VERGANI,
FORTUNATO ROSTI (a cura di) -
Teatro Milanese, Parma, 1958.
LAMBERTO
SANGUINETTI - Il teatro dialettale milanese dal XVII al XX secolo, Milano, 1966.
SEVERINO PAGANI
- Ciao Milano, Milano 1978.
CARLETTO COLOMBO - Storia del teatro
dialettale milanese , Milano, 1981.
RENATO SIMONI – Teatro
di ieri, Milano, Fratelli Treves Ediotri,1938
RENATO SIMONI – Trent’anni
di cronaca drammatica (cinque volumi), Società Editrice Torinese, 1952-1960
AA.VV. - Il teatro milanese. Piccola
cronistoria , Milano, 1927.
AA.VV. - Enciclopedia Garzanti dello Spettacolo.
AA.VV. -
Enciclopedia della Letteratura Italiana , Novara, De Agostini
.
RENZO ROCCA – La Prealpina, 31 gennaio 1982
GIULIANO MANGANO –
Tracce, aprile 1984
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