sabato 11 gennaio 2020

Liala: il romanzo della vita


In un convegno dell’USPI, tenuto negli anni settanta a villa Ponti, la senatrice Susanna Agnelli, in un suo intervento molto seguito ed applaudito, sostenne l’opportunità di rilassanti letture d’evasione. Si riferiva, allora, alle riviste, principalmente indirizzate al pubblico femminile. Ma quell’invito al cosiddetto disimpegno poteva tradursi sostanzialmente anche ai romanzi.  Non è scandalosa, affermava, una lettura distensiva alla fine di una giornata di lavoro. Ci si immerge in verosimili storie d’amore e si sogna, si fantastica, si adombrano avventure.
Questa premessa vale anche per le opere di Liala. Oltretutto ciò sembrerebbe dar ragione alle parole di Tarsilla, la sua domestica, chiamata familiarmente Tilla, che così spiega l’incontro e l’impatto con i romanzi della sua ‘padrona’: “Liala mi regala i sogni che non potrò mai realizzare. Me li offre, mi fa scordare le mani rosse di detersivo”.
La critica contemporanea ed accademica, però, si è spesso espressa sempre negativamente al riguardo con giudizi sprezzanti e poco lusinghieri, dando l’impressione, a volte, di non aver neppure letto la produzione della scrittrice lombarda e varesina d’adozione.(1)
Bassani, Cassola e Pratolini, tanto per fare degli esempi, furono apostrofati dal Gruppo 63 come “Liale”, perché ritenuti scrittori non all’altezza delle patrie lettere. La scrittura di Liala, infatti, era l’epitome di come si scrivesse male. Camilla Cederna, seguita in questo dalle femministe sessantottine, definì Liala come “scrittrice da manicure”. E di critiche negative la Nostra ne ricevette anche da parte della Chiesa: le sue eroine tenevano atteggiamenti poco opportuni o addirittura sconvenienti, non certo adatti all’educazione cattolica delle giovani.  A Liala si preferiva Delly,(2) la cui opera si presentava molto più vicina ad un ideale femminile devoto, puro, sottomesso, secondo l’archetipo di donna casa-chiesa-sposa modello.
Per questo è necessario spogliarsi di tutti quegli orpelli pregiudiziali che accompagnano la scrittura cosiddetta “rosa” ed immergersi nei personaggi, nelle situazioni, nelle descrizioni che emergono dai romanzi di Liala.(3)
E’ una questione di scelte e di gusti. Si può amare il romanzo giallo, quello realista, quello fantascientifico, quello d’avventura, quello rosa, quello storico od impegnato, ma non per questo l’uno o l’altro genere debbano o possano essere in quanto tali denigrati. Esiste a tal proposito una oggettività che prescinde dalle preferenze. Una oggettività alla quale Liala non sfugge. Anzi. Ne è una incontrastata dominatrice e regina.
Il primo elemento di tale oggettività che appare con tutta evidenza è la linearità della sua scrittura. Non c’è nulla di arzigogolato, nulla di iperbolico, nulla di ipertrofico. Basterebbero alcune citazioni, a caso, fra i suoi tanti (circa una novantina) romanzi e racconti o novelle. Una linearità che non significa ipso facto semplicità. Lo dimostrano i vari sinonimi usati per evitare scontate ripetizioni, nonché una capacità di scrittura snella e veloce. La sua sintassi è giocata su di una costruzione moderna in cui, sebbene non venga disdegnata affatto la lezione classica ottocentesca, alla fine prevalgono frasi paratattiche e a volte necessariamente nominali che offrono quel tocco di agilità stilistica capace di incollare il lettore alla pagina del romanzo.(4)
Un altro elemento importante è la capacità descrittiva dei luoghi, dei paesaggi, dei personaggi, degli stati d’animo. La descrizione degli ambienti mette in luce l’abilità e la sensibilità di Liala nel trasmetterci minuziosamente ogni particolare: d’arredamento, d’abbigliamento, architettonico, naturalistico. Come ogni bravo scrittore, Liala fa uso di tutti e cinque i sensi. In tal modo il lettore vede, sente, gusta, odora, tocca quello che sta accadendo nelle stanze, nelle vie, sulle piazze, nei salotti o in mezzo al verde della natura. I suoi romanzi possono essere definiti come tanti quadri che si proiettano in varie dimensioni. Oggi si parlerebbe di tridimensionalità.
Spesso sembra usare il bilancino del farmacista, e guarda caso sua padre lo era, per dare equilibrio ai suoi personaggi di modo che uno non prevalga sull’altro: protagonista e antagonista sono messi sullo stesso piano ed hanno una rilevanza identica. La costruzione della fabula ha tempi e luoghi precisi, studiati in una alternanza che dà rilievo al racconto. Allo stesso modo la chiarezza dell’intreccio non lascia spazio e dubbie interpretazioni. I dialoghi sono piani e ben strutturati, misurati sul carattere dei personaggi. Altro che scrittura sciatta e incolore.
Detto ciò, risulta chiaro come Liala sia stata fin troppo sottovalutata, relegata ad una letteratura di serie B che non ha ragion d’essere se non per pregiudizi nei confronti dei romanzi cosiddetti rosa.(5) Tanto è vero che la scrittrice può rientrare tranquillamente, se proprio la si vuol classificare, tra gli esponenti del decadentismo italiano, di cui D’Annunzio era valido interprete, visto che nelle sue opere prevalgono aspetti estetizzanti, costruiti con forti tinte di carattere barocco, nel racconto, ad esempio, di grandi passioni, di grandi amori, di grandi libertini, di grandi dame aristocratiche e non, sui cui incombe, deus ex machina, il grande e insondabile connubio Amore Morte.
Non è difficile allora da comprendere il perché di tanta fortuna e di tante vendite dei suoi libri. Non si tratta solo di un accattivante gioco per attrarre i sogni di signorine e signore, ma di un’esperta scrittura, attenta alla chiarezza e alla fruibilità. Che poi il suo primo romanzo (Signorsì) sia nato con l’intento di superare con la scrittura il proprio dolore non pregiudica affatto l’opera di Liala. Anzi. Ne sorte un’ammirazione incondizionata. Come fu quella di Mondadori o del Vate, che le coniò pure il nome de plume, Liala, appunto, perché – disse - l’accompagni sempre un’ala, anche nel nome.(6)(7)
Più che dall’ala la scrittrice fu immediatamente accompagnata dalla considerazione entusiastica delle lettrici.(8) Nel giro di poche settimane il suo primo romanzo fu esaurito.(9) Oltre alla probabile e temporanea sconfitta del dolore, Liala scoprì una vocazione innata.
In effetti iniziò a scrivere quasi per caso, come spiega lei stessa in un’intervista alla RAI.(10) Dopo aver assistito ad un incidente ferroviario a Moneglia, dove si era trasferita con il marito, venne invitata dal quotidiano genovese Il Caffaro a raccontare l’accaduto. L’articolo, profuso d’ironia, piacque a Willy Dias, direttrice del giornale e a sua volta autrice di romanzi per fanciulle, tanto che la spronò a scrivere racconti per il quotidiano, nonostante Liala si proclamasse non idonea. Ma l’insistenza fu tale che alla fine la Nostra si convinse a “buttar giù” qualcosa. Fu l’inizio. E da lì non si staccò mai più. Vinse anche un concorso letterario. Ma fino all’uscita di Signorsì rimase sconosciuta ai più.  
Se riandiamo al clima letterario di quegli anni scopriamo che non è del tutto incomprensibile il suo successo. Esistevano già, negli anni trenta, romanzieri che contavano su vaste tirature di copie, come Guido da Verona, Pitigrilli, D’Ambra, Zuccoli, Campanile, con le loro opere di carattere umoristico, pornografico o dal sapore eroico fascista. Si era verificata quindi una netta frattura fra romanzieri cosiddetti di intrattenimento e di massa, come quelli citati, e romanzieri che scrivevano per altri intellettuali (Gadda, Landolfi, Bilenchi, Vittorini). Così, mentre Guido da Verona, dopo il successo di Mimì Bluette fiore del mio giardino vendette due milioni e mezzo di copie, Moravia, Bontempelli e altri non superarono le centomila copie. Solo Sorelle Materassi di Palazzeschi arrivò quasi a duecentomila. 
Ed ecco che in Italia nella schiera dei romanzieri di evasione venne ad aggiungersi in quel periodo il genere rosa. Autrici come Mura, pseudonimo di Maria Volpi Nannipieri, Luciana Peverelli, la francese Delly, la britannica Barbara Cartland, sono le più conosciute. Ebbene, tra loro si incuneò Liala, superandole comunque tutte, anche perché la sua opera non eccedeva mai nei sentimentalismi, ma metteva sulla carta la vita con tutte le sue sfumature, al centro della quale ovviamente si ergeva l’amore. Una fra le altre, sentendosi forse minacciata nel successo, tentò di ostacolarla allontanando probabilmente l’interesse che Liala aveva suscitato in Rizzoli e Sonzogno: Mura, morta, destino volle, in un incidente aereo nel 1940.
È vero, certo, che esistono nelle opere della Nostra alcuni momenti ripetitivi, alcune situazioni che ritornano in forme nuove ma sostanzialmente già rivelatesi, determinati personaggi che possono sembrare fotocopia di altri. I protagonisti maschili dei suoi romanzi, ad esempio, che siano militari, artisti, industriali, aristocratici, o popolani, operai, contadini, appaiono quasi sempre in una dimensione ideale: belli, alti, biondi o mori, occhi azzurri o neri che con il loro sguardo ti fanno soccombere in un batter di ciglia, galanti nei modi e nei corteggiamenti.(11) Allo stesso modo le donne si palesano in una luce trasfigurante tanto da farle sembrare statue modellate da un dio, siano esse amanti appassionate o fanciulle inesperte e timide. Le accomunano tra l’altro nomi stravaganti (Sisinnia, Dianora, Pervinca, Ermellina, Bebe, Domin, Coralla(12)) che sembrano innalzarle su di un piedistallo fuori dal comune, ma che ne celebrano una sostanziale esperienza interiore simile a tante.
È la vita. Come sosteneva Liala stessa. Quella vita che le aveva tolto il suo aviatore, quella vita che lei aveva preso a piene mani e a piene mani distribuiva alle sue lettrici, ben conscia che nonostante i giudizi negativi di alcuni critici la sua fosse come una missione educatrice: sulla vita, appunto, e sulle sue infinite sfaccettature.
Tanto è vero che per permetterle un maggior contatto con le sue lettrice nel 1946 Mondadori fa uscire una rivista “Confidenze di Liala”, un giornale che sembrava fatto apposta per signorine e signore a cui dispensare consigli di vita e stile quotidiano. E Liala non mancò certo alle promesse. Le domande erano di ogni genere. Lavoro, amore, salute, comportamenti, bob ton, galateo. Travalicavano spesso i sentimenti per chiedere cose concrete. Liala si fece allora guidare e consigliare pure dal suo medico personale, illustre clinico milanese, perché molte signore le chiedevano consigli in campo sanitario.
Ed anche nei suoi romanzi c’era da imparare: come si stava a tavola, come si interloquiva, come ci si comportava in presenza di terzi. Raramente nei suoi romanzi troviamo la politica e la storia. Poco lo sguardo all’impegno, ma molta attenzione al privato e ai sentimenti.(13) Forse anche per questo Liala non attirava le simpatie di alcuni. Soprattutto delle femministe.(14)
Eppure le sue eroine non si presentavano affatto sottomesse. Tutt’altro. Se in un primo momento (diciamo fino agli anni 50) Liala scrive adeguandosi ai costumi del suo tempo, sebbene lei stessa se ne fosse già allontanata,(15) in un secondo periodo se ne affranca, discostandosi progressivamente da una  morale manichea e censoria. Tanto è vero che nei suoi romanzi la donna si libera dai soliti ruoli precostituiti: gesti e forme sono sempre più consapevolmente anticonformisti, raggiungendo spesso forme di erotismo, sicuramente né volgare né di maniera.
Le figure femminili che lei descrive si ribellano spesso perché vogliono l’indipendenza, dal padre e dal marito. In anni in cui in Italia ancora non esisteva il divorzio Liala ne parla senza pudori, così come parla di sessualità legata all’amore, o di aborto. Non dobbiamo però immaginarci una scrittrice rivoluzionaria, né tanto meno, abbiamo visto, femminista. La sua morale è particolarmente legata alla famiglia. Le sue eroine sono alla ricerca di un uomo che le protegga entro valori prestabiliti. Se ci si allontana ecco che subentra la punizione.
Così le lettrici si immedesimano nei suo personaggi e i loro sogni si fanno sempre più concreti. Anche le distanze sociali vengono meno. Donne povere e umili riescono ad accedere a livelli sociali più elevati, a volte con l’inganno che le farà precipitare nel male, a volte con l’innocenza della semplicità che le solleverà al bene. Non c’è del moralismo in tutto ciò, bensì del realismo. Si soccombe solo se non si prende atto che la società è costituita anche da persone ingannevoli. Ecco perché è necessario difendersi. E l’unico valore che ci può distrarre dal male è l’amore, sia come piacere erotico, sia come piacere narcisistico(16). Bisogna aver cura di se stessi.
            Esiste un percorso tra i primi romanzi di Liala e gli ultimi. Un percorso attento a quanta avviene al di fuori della sua Villa Cucciola,(17) dove si era rifugiata, come in un eremo, dopo la perdita del suo amore.(18) Si tratta di una trasformazione ideologica che accompagna il cambiamento della società. In questa metamorfosi, alcuni hanno visto la capacità di Liala di seguire l’evoluzione della società italiana, riflettendo i vari mutamenti in atto.(19) Cosa non da poco per una scrittrice accusata di presentare modelli stereotipati al di fuori del tempo e costruiti solo come oppio delle donne sottosviluppate e manicure senza orizzonti, per di più mal scritti, stupidi e mistificanti.
Ma abbiamo visto come ciò non sia affatto vero.
Nulla di mal scritto, nulla di mistificante, nulla di stupidità. Semmai una messa in scena della vita, nella sua complessità e parallelamente nella sua semplicità. Come quel detto di Sant’Agostino: “Ama e fai ciò che vuoi”. È proprio questo il segreto, forse, del successo e dell’attualità di Liala: l’amore, che accompagna la vita, che ne trascrive il romanzo.(20)

 Enea Biumi

 
Sintesi biografica

Liala è lo pseudonimo di Amalia Liana Negretti Odescalchi (Carate Lario31 marzo 1897 – Varese15 aprile 1995). Nobile per parte di madre (la nonna era discendente dalla nobile famiglia degli Odescalchi, che nella seconda metà del ‘600 diede un papa alla Chiesa, Innocenzo XI, proclamato beato da Pio XII nel 1956) apparteneva ad una famiglia altolocata, sebbene non ricca (il padre era farmacista). Ad appena due anni rimase orfana del padre. Madre e nonna, allora, le imposero un’educazione molto severa con regole ben precise e bon ton, come si addiceva ai membri dell’aristocrazia. Terminato il liceo avrebbe voluto frequentare la facoltà di farmacia, ma non si laureò perché ben presto, pur giovanissima, andò in sposa al marchese Tenente di Marina, Pompeo Cambiasi, di 17 anni più anziano. Nel 1924 nacque la prima figlia, Primavera. Incrinatosi il rapporto tra i coniugi, Liala lasciò il marito e intrecciò una relazione con un ufficiale di aviazione: il nobile Vittorio Centurione Scotto. Nel 1926, durante un’esercitazione di volo, Scotto precipitò nel lago di Varese e morì. La scrittrice, allora, si riavvicinò al marito e nel 1929 ebbe la seconda figlia, Serenella. Poco dopo i coniugi si separarono nuovamente. Nel 1930 Liala iniziò una relazione con un pilota d’aviazione, Pietro Sordi, col quale convisse sino al 1949. Chiese alla Sacra Rota l’annullamento del precedente matrimonio per poter avere nozze regolari, ma non le fu concesso. Anzi, nel 1932 Pietro Sordi dovette abbandonare l’aeronautica perché convivente con una donna separata. Nel 1931 Liala pubblicò il suo primo romanzo Signorsì. Dopo l’enorme successo avuto, anche in seguito ad altre pubblicazioni, nel 1946 Mondadori creò il settimanale “Confidenze di Liala” (divenuto poi solo Confidenze) per venire incontro al numeroso pubblico della scrittrice. Nel 1958 Liala si stabilì a Varese, a Villa Cucciola, dove trascorse gran parte della sua vita, accompagnata dalle figlie e da Tilla, la domestica, nonché dal ricordo del suo amore. Ivi morì il 15 aprile del 1995, all'età di 98 anni, assistita dalla figlia Primavera e dalla governante. I funerali vennero celebrati nella chiesa di Santa Maria della Gioia al Montello. Obbedendo al suo desiderio, la salma fu rivestita con un abito di Valentino. La scrittrice riposa in una cappella nel cimitero di Velate (Va). (*)
Note   

 (*) Nel 2014 venne inaugurato l’Archivio di Liala, gentilmente donato dalla figlia Primavera al Comune di Varese. L’archivio è costituito da album compositi, quaderni con appunti manoscritti, fogli dattiloscritti sparsi, fogli manoscritti dell’ultimo romanzo, lettere, telegrammi, cartoline, biglietti d’auguri, fotografie con dedica (cantanti lirici e personaggi famosi), fotografie di Liala e della famiglia, carte della famiglia Cambiasi a partire dall’inizio del XIX secolo, anche riguardanti la casa di Moneglia, opere di Liala (85 volumi rilegati in tela blu), volumi della biblioteca personale di Liala, volumi contenenti interviste alla scrittrice. Della donazione fanno parte anche interviste e recensioni a partire dagli anni Trenta apparse su giornali e riviste femminili, un ritratto ad olio di Pompeo Cambiasi senior e articoli sulla sua figura, il mobilio dello studio della scrittrice. (Notizia tratta da Varesenews)

1)    Si narra che un critico aveva giudicato il romanzo “Settecorna” pornografico. Evidentemente aveva letto solo il titolo. Era invece il racconto di una piccola lumaca fatata in grado di consigliare una fanciulla innamorata. (Mauro Della Porta Raffo, op. cit.)
2)    Delly è lo pseudonimo dei fratelli Jeanne-Marie (Avignone, 1875 - Versailles, 1947) e Frédéric Petijean de la Rosière (Vannes, 1876 - Versailles, 1949)
3)    “Sino a qualche tempo fa, una scrittrice come Liala era ritenuta, di norma, letterariamente inesistente. E dedicarle un convegno di studi sarebbe parsa un’idea sconsiderata, senza senso. Man mano però si è affermato il concetto che la letterarietà non comprende solo ciò che interessa e piace ai letterati. “Fanno letteratura” anche le opere predilette dai lettori privi di laurea in lettere: naturalmente, a una diversità di livello. E quando un narratore scrive libri che incantano per anni e anni un pubblico sterminato, ciò rappresenta un fenomeno, un problema che va preso in esame con impegno critico, spregiudicatamente, per capire bene quali siano le caratteristiche nelle quali riconoscere le ragioni del successo. Perché di autrici di romanzi rosa ce ne sono state tante, ma di Liala ce n’è una sola: e se ha trionfato su tutta la concorrenza, qualche motivo deve pure esserci.” (Vittorio Spinazzola, op. cit.)
4)    “Leggendo i libri di Liala ho trovato, nei meccanismi narrativi, una certa affinità con quelli di Salgari: descrizioni asciutte, trama essenziale, dialoghi serrati, e sempre un sotterraneo profumo di peccato”; “Per azzardare un altro paragone, certe volte mi ricordano i romanzi borghesi di Giovanni Verga. La scrittrice indugia parecchio nelle descrizioni di ambienti sfarzosi, i suoi personaggi frequentano spesso il teatro e commentano gli spettacoli, ma non mancano splendidi affreschi di paesaggio, soprattutto quello amato dei laghi di Varese e Maggiore” (E. Laforgia, op.cit.)
5)    “Dentro i miei libri non c'è il rosa, c'è la vita” sosteneva la scrittrice
6)    Quando nel 1931 Amalia Liana Cambiasi Negretti ebbe terminato il suo primo romanzo, intitolato ‘Signorsì’, l’editore Arnoldo Mondadori, entusiasta, la volle presentare nientemeno che a Gabriele D’Annunzio. Il Vate, colpito soprattutto dalla conoscenza che la signora aveva di motori ed aeroplani, la incoraggiò e la definì “compagna di volo e di insolenze” regalandole un’ala in miniatura con la scritta “a Liala”.
7)    L’amore per il volo Liala lo dimostra fin dalla giovane età. Riporto parte dell’interessante e vivace articolo di Pietro Mormino apparso sulla rivista “L’ala d’Italia” del 16-31 gennaio 1943, n.2. “Anni or sono (…) c’era a Como una ragazza che sognava di volare. Giovanissima, studentessa, e si chiamava Liala. C’era pure sul lago un pilota – Londini – che per un compenso di cento lire portava sul suo idrovolante – un trabiccolo di legno e di tela – chi avesse avuto la temerarietà di tentare una cavalcata fra le nuvole.  (…) Liala (…) volle tentare. (…) Un amico venne a far visita e – in presenza della madre – disse a Liala: “T’ho vista all’idroscalo stamattina. Quanta prosopopea perché andavi a volare!” “Volare?” fece eco la madre sorpresa. “Ma io…” “Volare?” ripeté la genitrice adirata.  E uno scapaccione raggiunse la bella e audace ragazza dai capelli tizianeschi.”
8)    “Il sabato era giorno di parrucchiere, la domenica si andava a Como dalla nonna, il lunedì riposava, martedì dalla sarta... e per il giovedì bisognava consegnare 15 cartelle di romanzo all'editore, e 15 di posta alle riviste. Così scriveva il mercoledì, fino a tarda notte. Alle sue lettrici regalava sogni, ma la sua fu una vita di rigori.” (Luigi Mascheroni, op.cit.)
9)    Ecco le parole del telegramma inviatole dall’Editore: “Sono assai lieto di comunicarle che la prima edizione del suo “Signorsì” è qui esaurita. Stop. Questa lieta accoglienza di pubblico sia di auspicio per le maggiori fortune del suo certo domani. Stop. Devotamente Mondadori”
10)  Ora quell’intervista la si ritrova in youtube
11) Aveva il culto della bellezza, da buona esteta. Parlando di Italo Balbo, ad esempio, disse: "Gran bell'uomo non direi. Era, sì, uno che incuteva rispetto e reverenza, ma era bassettino, tracagnotto. Non so se era molto bravo nelle marce, so che ne fece una su Roma. Adesso che ci penso, faceva dei passettini così corti. Sapete, era basso di cavallo." (Annalena Benini, op. cit.) La stessa Liala era alta, affascinante, sottile, con occhi verde cupo, una folta chioma fulva (La Negretti la gh’ha i öcc culur birra Moretti, ripetevano i suoi compagni di classe) raffinata. Le movenze eleganti, un poco civettuola, ma sincera e schietta nel parlare, colta, nobile quanto il suo pilota, come lui abituata alla vita di società (da “Diario vagabondo” op. cit.)
12)  Alcuni pensano che questi inusitati nomi siano da collegare a quelli di cavalle raccolti dalla lettura di riviste ippiche.
13)  Di orientamento conservatore e filomonarchico, il 4 marzo 1977 ricevette la croce di Dama dell’ordine della Corona d’Italia da Umberto II, con cui sin dal 1946 aveva mantenuto una corrispondenza (Eleonora Carinci, op. cit.)
14)  Sebbene D’Annunzio, Ojetti, Trilussa, nel primo novecento, e in seguito Spinazzola, Busi, Zeri, lo stesso Eco, giudicassero positivamente, per studio o per ammirazione, i romanzi di Liala, le sue storie furono variamente definite e dileggiate come “paraletteratura per manicure”, “caramelle zuccherose”, “favolette moderne”.
15)  Chiese il divorzio perfino alla Sacro Rota, che non lo concesse. Liala, pur sposata, ebbe relazioni fuori dal matrimonio, dapprima con il nobile pilota Vittorio Centurione Scotto, perito tragicamente con il suo velivolo nel lago di Varese durante una competizione per la Coppa Schneider il 21 settembre del 1926, in seguito – dal 1930 al 1949 – con l’Ufficiale pilota Pietro Sordi.
16)  “I personaggi io li mando a letto, e quindi il colore giusto non è il rosa, ma il rosso della passione. Soltanto non sto a guardare ciò che fanno, li accompagno fino alla soglia della camera da letto e poi chiudo la porta.” (Mauro Della Porta Raffo, op. cit.)
17)   “La chiamò così perché era piccolina a confronto delle grandi proprietà ereditate e poi perdute. Ma era naturalmente la casa che amava di più, perché l'aveva fatta lei, comprata con i soldi del suo lavoro. Mamma era molto orgogliosa”. Sono le parole della figlia Primavera (Luigi Mascheroni, op. cit.)
18)  “(…) Sono tornata a Varese, dove tu hai ripiegato le tue belle ali (…) dove tu mi hai dato il primo e l’ultimo bacio (…) E quando vedo il lago nel quale si inabissò il tuo apparecchio, io mi domando come poté essere che un uomo del tuo valore, della tua abilità, della tua sicurezza, si sia schiantato così, in acque chete piene di sole.”  (da “Diario vagabondo”)
19)  Ad esempio, Umberto Eco
20)  “Ho tanto amato e tanto sofferto per amore, e quando sono guarita di queste ferite ho trovato modo di insegnare agli altri a guarire” (da un’intervista Rai)
 
Bibliografia
1)    Umberto Eco, Carolina Invernizio, Matilde Serao, Liala, Firenze, La Nuova Italia, 1979
2)    Mariolina Bertini, Apologia di Liala, Alter Alter, marzo 1979, anno 6, n° 3, pag. 48-51, riproposto in federiconovaro.eu (25/02/2014)
3)    Roberto GervasoLa mosca al naso. Interviste famose, Rizzoli Editore, Milano, 1980
4)    Francesca Gregoricchio, Liala. Sulla scrittrice italiana più letta e popolare, Milano, Gammalibri, 1981.
5)    Giovanna Rosa, Lo specchio di Liala, in V. Spinazzola (a cura di) Il successo letterario, Milano, Unicopli, 1985, pp. 37-69.
6)    Enzo Biagi, Senza dire arrivederci, Mondadori, 1985
7)    Dizionario Bompiani degli autori di tutti i tempi e di tutte le letterature, III, Autori. L-P, Milano, Bompiani, 1987, p. 1306.
8)    Giorgio Torelli, Una volta con, Mursia, 1988
9)    Il trionfo di Liala, La Repubblica, 11/02/1989
10)  Liala compie 94 anni, La Repubblica, 31/03/1991
11)  Aldo Busi, L’amore è una budella gentile, flirt con Liala, Mondadori, 1994
12)  D’Annunzio: a Liala solo fazzoletti di seta, niente lettere, La figlia della regina dei romanzi rosa chiarisce il mistero, Adnkronos, 24/08/1996
13)  Roberto Cappuccio, L'aviatore dagli occhi d'oro. Una biografia tra cielo e mare, Pisa, ETS, 1998. ISBN 88-467-0102-X.
14)  Luisa Negri, Il grembiule di castagne, ritratti di donne a Varese, Comune di Varese, 2001
15)  Mauro Della Porta Raffo, Villa ‘La Cucciola’ (pubblicato su Panorama l’8 settembre 2005, successivamente raccolto nel volume ‘Eminenti Varesini’’, settembre 2006, e in ‘C’è posta per Liala’, novembre 2007)
16)  Mauro Della Porta Raffo, La vita e le opere, (dal volume ‘Eminenti Varesini’, settembre 2006, successivamente proposto in ‘C’è posta per Liala’ nel novembre del 2007)
17)  Mauro Della Porta Raffo, Verso Runo, (pubblicato il 15 dicembre 2009 nella pagina culturale del Corriere della Sera)
18)  Luca Serianni, Le forze in gioco nella storia linguistica, in P. Trifone (a cura di), Lingua e identità. Una storia sociale dell’italiano, Roma, Carocci, nuova ed. 2009, pp. 47-77.
19)  Annalena Benini, Liala siamo noi, il foglio, 25/04/2011
20)  Assunta Sarlo, Intramontabile Liala, le ragioni di un successo in un convegno a Milano, 18/04/2011
21)  Mario Chiodetti, Liala, dalla serie B all’Università, La provincia di Como, 19/04/2011
22)  Giuseppe Sergio, Liala, dal romanzo al fotoromanzo. Le scelte linguistiche, lo stile, i temi, Milano-Udine, Mimesis, 2012. ISBN 978-88-575-1107-8.
23)  Mariolina Bertini, Liala “Oggi”, in Federiconovaro.eu, 04/01/2012
24)  Varesenews, Torna a splendere la piazzetta della scrittrice Liala, 20/01/2012
25)  Liala, claudiacolblog.blogspot.com, 23/03/2012
26)  Luisa Negri, Il frate francescano confessore di Liala, RMF on line, 28/04/2012
27)  Luisa Finocchi e Ada Gigli Marchetti (a cura di) Liala. Una protagonista dell’editoria rosa tra romanzi e stampa periodica (IntroduzioneLuisa Finocchi e Ada Gigli MarchettiSaggi: Il tremendismo di Liala, di Vittorio Spinazzola; Liala e il mondo editoriale: una vita tra sogno e realtà, di Ada Gigli Marchetti; Liala che torna, di Giovanna Rosa; Signorsì! Liala, Mondadori, il romanzo rosa-aviatorio e la satira di costume, di Bruno Pischedda; Scrivere in rosa: la lingua della narrativa, di Silvia Morgana; Liala e le ceneri di D’Annunzio: modelli narrativi, di Arturo Carlo Quintavalle; Sulle tracce dell’altrove africano nella produzione di Liala degli anni Trenta e Quaranta, di Enzo R. Laforgia; Liala: le figure dell’amore, di Gloria Bianchino; Le “Confidenze”: Liala e la stampa periodica, di Silvia Cassamagnaghi; I fotoromanzi di Liala: temi, lingua, stile, di Giuseppe Sergio; Lialine e lialini. I fan di Liala, di Patrizia Caccia, Sabina Ciminari; “Queen Romance”: da Barbara Cartland alla chick lit, di Carlo Pagetti; Liala: il “sortilegio” che ha incatenato il pubblico femminile, di Cesare De Michelis; Appendice. I Romanzi di Liala, di Patrizia Caccia) Editore Franco Angeli, 2013
28)  Eleonora Carinci, Dizionario biografico degli italiani, vol. 78, Treccani, 2013
29)  Laura Ricci, Paraletteratura. Lingua e stile dei generi di consumo, Roma, Carocci, 2013.
30)   Patrizia Poli, Uno stile fatto di molteplici sfumature: Liala, signoradeifiltri.overblog.com, 03/02/2013
31)  Liala, cartalibera.it, 12/06/2014
32)  Addio alla “piccola” Liala, S’è spenta a Milano a 84 anni, Serenella, la secondogenita della scrittrice di romanzi rosa, La Prealpina, 24/07/2014
33)  Stefania Radman, Tra letture e ricordi, torna nuova la piazzetta Liala, Varesenews, 16/04/2015
34)  Luigi Mascheroni, Liala, dieci milioni di copie solo il mercoledì, Il giornale, 20/04/2015
35)  Piera Malnati, La figlia della scrittrice Liala, Primavera Cambiasi, sceglierà la novella vincitrice della Festa della Rosa a Induno Olona, Sacromontevarese.net, 22/04/2015
36)  Francesca Santucci, Amalia Liana, in arte Liala, Poetikanten Edizioni, 2015
37)  Rita Fresu, L’infinito pulviscolo. Tipologia linguistica della (para) letteratura femminile in Italia tra Otto e Novecento, Milano, Franco Angeli, 2016.
38)  Claudio Sottocornola, Intervista a Liana Cambiasi Negretti Odescalchi, Pubblicato per la prima volta in: Il Giornale di Bergamo Oggi, 30 giugno 1990. Oggi inClaudio Sottocornola, Varietà. Taccuino giornalistico: interviste, ritratti, recensioni, approfondimenti, ricerche su costume, società e spettacolo nell’Italia fra gli anni ’80 e ’90, Marna editore, 2016. 
39)  Mariolina Bertini, Liala e il Professore, Palomarblog.wordpress.com, 22/02/2016
40)   Luisa Negri, Nella leggenda per caso, RMF on line, 08/04/2016
41)  Laura Pantaleo Lucchetti, Un roseto in onore di Liala. Le sue parole sono immortali, La Provincia di Varese, 31/03/2017
42)   Luisa Negri, Giardini di Liala, RMF on line, 31/03/2017
43)  Varesenews, Inaugurata la panchina degli innamorati, è dedicata a Liala, 31/03/2017
44)  Francesco Lamendola, Vendicare Liala e l’azzurro nelle vetrate, Accademianuovaitalia.it, 29/08/2017
45)  Vittorio Spinazzola, Il romanzo d’amore, Pisa, ETS, 2017
46)  Simona Bellone, Un grande amore con le ali - Vittorio Centurione Scotto - capitano Regia Aeronautica - L'eroe dimenticato (carriera sportiva e militare e vita privata) -  caARTEiv 2018 - ISBN 978-88-97187-13-4
47)  Giuseppe Sergio, Sognare e non dormire: il lieto fine rosa, in V. Spinazzola (a cura di), Tirature ’18. Lieto fine, Milano, il Saggiatore, 2018, pp. 15-20.
48)  Varesenews, Addio Tilla, governante di Liala, famosa scrittrice varesina, 25/03/2018
49) Giuseppe Sergio, Liala, l’inconfondibile e immutabile ala di parole rosa, Istituto della Enciclopedia Italiana – Treccani, 05/07/2018
50)  Giulia La Face, La regina del romanzo rosa non smette di far parlare di sè (e far sognare milioni di donne), Culturalfemminile.com, 05/07/2018
51) Michele Giocondi e Mario Mancini Liala, sull‘“ala” dell’evasione”, medium.com 09/12/2018

 

venerdì 20 dicembre 2019

Gianfranco Galante, Il pensiero soffia ancora, TraccePerLaMeta Edizioni



C’è, in quest’ultima silloge poetica di Gianfranco Galante “Il pensiero soffia ancora”, una forza consapevole ed integra, accompagnata da una autorevole originale vitalità, che si dipana nell’armoniosità dei versi, tale da entrare immediatamente ed empaticamente in sintonia con il poeta stesso. La pienezza del pensiero fa sì che il lettore si renda partecipe di quel soffio che sprona l’autore alla scrittura e ne dilata il contenuto non più còlto in un ambito personale, unico e solo, bensì promotore d’un dialogo e interlocutore di un “altro”.

E passeggio solo,
per avere chi cammini
a fianco a me.
 
Il sentimento si eleva e si ravviva. Traspare e fluisce con un vocabolario classico ed elegante, nel quale si intravedono rime e ritmi scientemente travasati in ricchezza di stile e contenuto. Potrebbe sembrare bizzarro – ma già altri l’hanno utilizzato (non ultima la Patrizia Valduga) – il condurre la poesia attraverso un attento e preciso rimario, apparentemente rifiutato nel novecento, ma è proprio da questa scelta che si sviluppano e si integrano significato e significante.

Plasmare la lingua
modellare il pensiero,
levigare con penna
perché sembri vero.(…)
 
E’ marmo che tiene,
resiste scalfito,
l’opera emerge
d’un blocco a granito.
 
Il linguaggio così esposto ci conduce ad una dimensione di immagini sobrie ed efficaci afferenti in modo particolare il tema dell’amore.

Già labbra socchiuse
sfioran la pelle;
inebrio al profumo
e sento un vibrar di stelle.
 
Ma non solo amore. In effetti, Galante osserva la vita in tutte le sue fasi ed evoluzioni. Dove naturalmente l’amore prevale su tutto. 

Siamo ombra, siamo niente,
siamo sempre solo gente.

La ritmica - e la poesia deve essere musicale, altrimenti non la chiameremmo lirica - giocata  in massima parte su quinari, senari e settenari, facilita sulla pagina ciò che nella vita appare meno scontato e più duro, dilatando nel tempo e nello spazio elementi empirici e realistici estranei alla narrazione poetica in sé, così che descrizioni paesaggistiche e riflessioni personali diventano un tutt’uno, sulla scorta della lezione poetica tradizionale. Alla stregua di un idillio.

Dimmi, luna,
che sarà ‘l doman di me;
se lo sai, luna, dimmi tu.

Non altrimenti potrebbero leggersi queste quartine:

Spicchio di luna
che sorgi dal monte
annunci serena
la notte vicina.
 
Tornan le barche
accolte giù al molo
dov’offre rifugio
il suo porticciolo.


Queste strofe sono costruite su quinari che fanno scivolare il pensiero rapido e leggero al verso finale, contenente in nuce il senso della poesia stessa: “il cuor qui si lascia”. Vale a dire: il mio cuore, che è al centro di me stesso ma anche al centro della mia scrittura, si trova qui, e qui si installa: deciso a non abbandonare niente e nessuno. Alla fine, il pessimismo della ragione, che ci perseguita dai secoli del razionalismo, si tramuta in senso religioso, in imprescindibile pragmatismo morale, che non è moralismo, ma capacità d’essere hic et nunc uomini eticamente corretti.


Il bene a fondo, sotto pelle,
mai non nuoce e dà calore;
ci ricorda sol che in vita
ciò che sempre ci conduce
non è chiasso e gran clamore,
ma profondo e caldo amore.


Enea  Biumi






venerdì 11 ottobre 2019

Maria Borio “Trasparenza” - Interlinea Edizioni, 2018




L’accenno riproduttivo e fecondo esegue una partitura dialettica dove tesi e antitesi sono il puro e l’impuro. Sintesi diviene la trasparenza, forse il grande vetro del mondo digitale che confonde e scambia le parti. E proprio “Trasparenza” è il titolo del libro di poesia proposto da Maria Borio. C’è, inizialmente, un tentativo di fuga dalla rigidità della forma a vantaggio di una materia che si pone come inalienabile confronto. La struttura testuale determina una successione strofica a costruzione compatta, volutamente ancorata ad una tecnica dicibile estremamente controllata, riportata ad una geometria nitida che si sente quasi costretta a rendere ragione di una partitura non limitata all’univocità della determinazione versificante, ma tale da confidare nella ricezione consapevole attuata in visibilità reiterata, attraverso una orchestrazione di messe a fuoco su elementi correlativi. Ci si affida alla responsabilità del lettore affinché osservi, nella determinata volontà di attenzione, le parole idonee all’umano. “L’attrito sempre quando capita una coincidenza”; d’altra parte, si sa, il tomismo ci ha insegnato che pensiero e linguaggio, poiché sono qualcosa, sono nell’essere; essere e linguaggio, in quanto pensati, sono nel pensiero; essere e pensiero, in quanto detti, sono nel linguaggio. Operare una sintesi è anche sezionare l’accortezza delle differenze, natura data e tecnologia imposta. La scrittura segna il limite esatto che traccia il cammino percorribile nella dinamicità cognitiva della scelta. Un tessuto prosastico accentua l’evoluzione del dettato stilistico, imprime alla tersa qualità della pagina la calibratura parsimoniosa della comunicazione. D’altra parte, il luogo ci abita; scrive Maria Borio: “Eri nel punto più alto della scogliera/ nel vento del nord affilato, lunare”. Un caleidoscopio di frammenti intende risuonare alto, quasi a confessare una composta critica del virtuale, un bisogno intimo di contatto con le cose in atto, con gli eventi...”-siamo una finestra senza imposte,/ il vetro su cui le storie aderiscono-“. Il procedimento logico, a volte, introduce sinapsi tra ambientazioni concettuali differenti, appellandosi ad una intenzione suggerita di oltrepassare la visibilità costituente l’accessibile, in uno struggente diramarsi filtrato; “Ma adesso alberi è una parola irreale” e molto sfugge alla gradualità della proposta, alla difficoltà del partecipare, a quella condizione che, per dirla con William Gaddis, porta all’agonia dell’agape. Le imperfezioni sono tagli esistenziali nella continuità di un confronto di elementi tra purezze e impurità, nella vocazione che si fa opzione di recupero in memoria di dialoghi perduti. Diafano il profilo femminile che dirime assunzioni materne nella vulnerabilità delle trasformazioni ancorate, da ipotesi di abbandono che funestano il dettato tecnologico quale motore acefalo, caravanserraglio sterile. Ma la risposta è nell’eco di tracce dove la parola conduce alla storia; ed allora sembra davvero che “luci/ magre ed elettriche” occhieggino Govoni, e le modalità trasparenti, Stevens. Maria Borio ci avverte: “Hai il petto spaccato, scrittura e lavoro/ sono immagini: l’acqua si apre a cerchi/ come il cadere continuo/ degli occhi sulla fontana...” poi, tratteremo altra modalità connotativa, diversa applicazione in lessico, rivolta poetica nei confronti di un’incombente assuefazione alla passività dei contenuti, mentre “ci siamo persi di notte su questa riva,/ le luci oscillano sopra le spalle”.
Andrea Rompianesi

giovedì 12 settembre 2019

Renata Morresi “Terzo paesaggio” (Nino Aragno Editore, 2019)



“da un nulla di torba, argon, catrame/ canta me, besame mucho, diastema/.../ il nulla che muovo como si fuera/ esta noche/ la/ voz”... come suono in plurilinguismo asimmetrico, come inserzione di sintagmi in apertura, i rimandi evidenti suonano nell’accorta tessitura del dettaglio. E’ “Terzo paesaggio” di Renata Morresi, autrice e traduttrice di letteratura anglo-americana. Quel paesaggio terzo che corrisponde a tutti quei luoghi abbandonati dall’uomo, intende porsi a scenario di scomposto approdo per obliqui e ironici affondi. Uno dei primi temi trattati, essendo l’autrice di Recanati, è il dramma del terremoto che nel 2016 ha colpito le Marche. Renata Morresi intende denunciare, attraverso un approccio stilistico originale, la deriva retorica dimostrata dalla banalizzazione dei toni nel sistema dei media. I tronconi dei versi sembrano figurare resti e relitti, geometrie abitative divelte e nello stesso tempo, le colpevoli negligenze velate da progettualità vendute come risolutive e salvifiche. L’amarezza destina il processo alla sonorità allitterante contesa da una volontà attinente alla prosecuzione narrativa, alla contrastiva opportunità di composizioni a versi ridotti in unità sillabiche, oltre a spasimi estesi e dilatati in versi lunghi e prosastici. Figurazioni opposte che si alternano sulla pagina. Una qualche assonanza intercetta il flusso contenuto all’interno di un dire che contempla duro le patologie di uno stato civile che ha perduto le sue vere prerogative; la sindrome depressiva di un contesto generale impregnato di precarietà, deriva economica, delirio digitale. Vi è poi una sezione, “Car wash”, dedicata alla memoria del padre, definito dall’autrice “uomo di natura e di macchine”; il verso qui compone adulto il tratto reiterante che designa l’articolata e alterna posizione spaziale nella vocazione sospensiva della “solo attesa” nel travaglio indocile de “la percezione libera”. Ci sono interventi linguistici di particolare riproduzione elaborativa che ricordano esperienze poetiche tecnicamente legate alla rappresentazione dei meccanismi come, solo per citarne un esempio tra i più riusciti, “Distribuzione” di Alberto Mori, nel quale l’uso espressivo riproduce la modalità della sigla nella sua accezione semiotica in rigore modernistico: “ ne 1 pista aspirazione 2 pista aspira 3 s spi azio  4 sta razion 5 pi spi ne”. L’incastro movimentato non estingue il dolore e attende un moto la possibile consolazione ritradotta in smarrimento fluido, la stessa diversa grandezza, a volte, dei caratteri tipografici, lo svelante ritmo conoscitivo in potenza memorabile nella “pianura di noi espansa, bianca/ che non viene separata dalla notte”. D’altra parte già prima, molto prima, si erano svolte ondulazioni sussistenti che operavano riconoscimenti istintivi e dislocati in procedure mobili, ipotizzando “le cose che vedremmo andando in bicicletta/ sulla battigia”. Poi tutto diventa imbarazzo sillabico, volutamente spezzato, quasi infranto, come una procedura linguistica che rivela interruzioni inesplicabili, ingorghi indicibili, frantumati messaggi occupanti lo spazio web. Ci salverà forse la possibilità di una pista; quella riproposta da Franco Fortini: “Noi ci troviamo in questo momento in corsa/ in una lunghissima curva della pista”. Renata Morresi ci parla di una vocazione intessuta di elaborazione linguistica e abilitata a commuoversi “per quel tacere delle cose”.

                                                                      Andrea Rompianesi

mercoledì 17 luglio 2019

Flavio Ermini “Edeniche” (Moretti e Vitali Editori, 2019)




E’ sapienziale il tono di Flavio Ermini in “Edeniche”; la poesia sviluppa un verso prosastico a contenuto filosofico dove si assiste ad una evocazione del “darsi iniziale” di un’età in cui il tempo riposava nell’essere. Il moto aurorale dell’esistenza richiama la nostra osservazione vigile prima della cosa, all’esatto processo di appartenenza come enti, nella consapevolezza di una separazione degli esseri dalla sostanza, verso un destino di conflitti e contrasti. Recuperare un’acquisizione perduta, dunque, s’impone come progetto ampiamente trattato nella consistenza saggistica della riflessione poetante. Ermini è autore profondo e inquieto di fronte al destino degli uomini; ha vissuto stagioni accorate di meditazione sul compito terreno dei mortali, sulla sofferta determinazione nel cogliere un tratto che auspichi consapevolezza primigenia, mutamento arcaico, forse quell’indefinito che era principio degli esseri per Anassimandro. Qualcuno potrebbe affermare giustamente che se è vero che non c’è inizio senza fine, non può nemmeno esserci allora fine senza inizio. E ben oltre andava la riflessione di Heidegger, così spesso volutamente frainteso su basi ideologiche, nel recupero di un concetto di essere collocabile all’inizio di una tradizione da reinterpretare alla luce di un esito che richiede il significato della nostra temporalità, ponendolo come irrisolto quesito. Ma, continuava Heidegger, proprio “l’indefinibilità dell’essere non esenta dalla domanda circa il suo senso, al contrario la provoca”. Da qui, la necessità ribadita, dunque, di un significato. Si parla quindi di principio, dolore, sostanza, essere per la morte ma, contemporaneamente, in lineare continuità, di sogno e azzurrità, di stelle e ultima terra, di luce originaria, del divino. Ermini ci presenta una forma di cacciata dall’Eden, di una condanna all’esilio. In realtà il tema biblico, nella sua accezione più esegetica che si fonda sui generi letterari, vede la libera scelta dell’uomo che proprio della sua libertà si fa vanto, disconoscendo un rapporto di filiazione in una volontaria espressione di superbia. Voler contare solo sui mezzi umani mette a confronto immediato con le capacità ma anche con i limiti. Ci sono accenni tra i versi che evocano il movimento e mutamento di afflato inesorabilmente tomistico, così come la suggestione di una “trasformatio mundi”. Il verso lungo pianifica l’attribuzione dei passaggi che, implacabili, determinano l’assuefazione ad una pratica di lettura dilatata alla vocazione assertiva. Una dizione linguisticamente lenitiva, quasi progettata su moduli di respirazione interiore, nella peculiarità conoscitiva rivolta all’origine, apre aree di approfondimento ancorato al nostro domandare. “Sotto uno spazio definito da stelle inerti e tenebre/ prelude all’incontro con la morte l’atto di cadere”, e proprio la filosofia, sosteneva Emanuele Severino, nasce come risposta di fronte alla domanda che la morte stessa ci suscita. Emerge, ad un certo punto, il tema specifico della discordia tra gli umani; quella radicale lotta che conduce al contrasto estremo, alla guerra. Si apre uno scenario di rovine da terra desolata all’interno del quale il poeta disegna le indicative configurazioni del principio. C’è una ricerca del sentire che determina acquisizione di fratture, intenti di progetto. Scriveva Schelling: “Il limite che Fichte poneva fuori dell’Io, fu posto così da me nell’Io stesso, e il processo divenne un processo puramente immanente, nel quale l’Io si occupa solamente di se stesso, della contraddizione sua propria, posta in lui stesso, di essere cioè insieme soggetto e oggetto, finito come coscienza e infinito in quanto Principio produttore dell’universo”. E, al di là del persistente riflettere, adombra la prospettiva dell’esilio, la sua determinata osservanza; infatti “ha voci ovunque il cantiere dell’uomo/ nel richiamare alla mente la casa natale/ che spinge l’esule a uno stato di sconforto/ in quanto elemento destinato alla fine”. Precarietà e senso del dissolvimento incombono nella poesia di Ermini, ma proprio questa identità che si pone di fronte come destino fa sì che, paradossalmente, il destino stesso acquisisca il suo più profondo significato ontologico.
 
Andrea Rompianesi

lunedì 8 luglio 2019

Carlo Zanzi, Nudo di uomo, Macchione editore, Varese, 2019




È un inno all’Amore questo “Nudo di uomo” di Carlo Zanzi, rivelato anche dalle citazioni iniziali (Dante, San Giovanni) e dall’esergo “a quanti si amano follemente”. Nel contempo, però, siamo di fronte a un inno, o, ancor meglio, al trionfo della Morte. Il binomio Amore-Morte, tanto caro alla letteratura romantica, viene qui riproposto in termini e in situazioni del tutto contemporanei il cui nucleo essenziale si manifesta in un costante e inappagante autodafè dei protagonisti. Danilo, Massimo, Rosa, Maria, Alessandra  – ma anche altri personaggi meno presenti – si interrogano in continuazione sul loro ruolo, sullo scopo della loro esistenza, sulla verità delle loro azioni. Il lettore si trova davanti, pagina dopo pagina, a delle coscienze che scavano nei propri anfratti più nascosti e segreti perché hanno desiderio di autoconoscersi, verificando maniacalmente, secondo dopo secondo, ogni istante della propria esistenza. Non era facile affrontare un tema così complesso e dalle varie sfaccettature, ma Zanzi vi è riuscito attraverso un linguaggio scorrevole ed una scrittura chiara – ma non semplicistica – che rende agevole la lettura e incuriosisce. Così come sono curiosi, ma di se stessi, i protagonisti del romanzo, che vogliono rendere visibile e cosciente quello che è determinato dal subcosciente. Frequenti, ad esempio, sono i sogni, tipici momenti – e topici – dell’introspezione freudiana. Ecco allora disvelata l’accezione iponimica di quel “nudo”. È   un po’ come mettersi dinanzi allo specchio ed esaminarsi millimetro per millimetro. Ma l’analisi è tutta interiore. Il nudo che appare è dentro di sé. È lo svelamento di un dire e di un non dire, di un farsi e non farsi, a volte per giustificarsi, a volte per condannarsi. Analessi e prolessi si alternano in un flusso esasperato di domande che spesso non hanno risposte. È un procedere che sembra non avere pause, un ritmo che non si ferma, nemmeno nel sonno. Anzi, è proprio il sonno che fa pulsare maggiormente l’amore, che lo innalza alla clarità platonica o che lo declassa a semplice gioco erotico. E dopo il sogno ricompare la vita, con le sue affezioni, con i suoi tormenti.  Amicizie, primi amori, tradimenti, incomprensioni, religiosità, lavoro, ricordi, desideri. Ma emerge, nella sua brutalità, anche la morte. Tutti ne hanno paura. La temono. Massimo, addirittura, fugge dal capezzale della moglie morente. Non ne vuole cogliere il dramma. Solo a posteriori intende che il momento della morte è un supremo atto d’amore. In Dio, per chi è credente. Allo stesso modo Danilo arriva in ritardo alla morte della madre. È il caso? Può darsi. Il fatto è che il destino gioca brutti scherzi. Non sto a raccontare il finale per non togliere al lettore la sorpresa di un racconto acceso e intrigante. Dirò solo che Amore e Morte si incrociano inesorabilmente in un ibrido di fatalità e di nemesi individuale. La fine si ricollega idealmente, ma non solo, all’inizio del romanzo. Ripete quello che è il destino dell’uomo. Rivela la sua nudità. La sua debolezza. Rimane, unica consolatrice, la preghiera. E il pianto.

Enea Biumi
 

giovedì 4 luglio 2019

Adelio Fusé “Tempo ventriloquo” (Book Editore, 2019)



Il “tu” a cui si rivolge il poeta è un Doppio anche critico, un “detective di nomadismi”, nel continuo andare attraverso l’espressione canterina di un tempo in duplice accezione: tempo universale e tempo individuale. Quasi una presocratica necessità di conciliare ragione ed esperienza dopo l’ancoraggio eleatico all’essere. Ma c’è anche tutto il vissuto e il pensato che antepone al gesto la responsabilità di una scelta. “Mi uso dunque esisto:/ e consento ad altri l’uso/ voi compresi”. dice Adelio Fusé in questo suo sempre coinvolgente esito poetico dal titolo “Tempo ventriloquo”. Nel passo sicuro di differenti combinazioni strofiche si amalgama l’evolvente richiamo alla cedevole penalità attesa e, nello stesso tempo, osservata come dicibile, narrabile dialogo tra l’affermazione  in evento e l’inestricabile suono delle sillabe congedate. Fusè sollecita il verso, in questa occasione, verso un più aperto intento comunicativo, nell’urgenza di allontanarsi dal quantificabile in costruzione assidua ma divelta dalla preoccupazione semantica. Il tempo che concede il tu proponibile riabilita avventure solo apparentemente nugaci, impone gravido l’utilità dialettica delle tesi. Rari ritorni fonetici in assenza d’insistenza rivelano accorti e assaporanti quasi un pullulare di emersi tratteggi, l’impatto della vita e il perdurare paziente nella superficie. E davvero Fusé insegue, in questo testo, il suono notturno di contemporanee sirene inavvistabili; l’emotiva domanda che reinterpreta sensualmente l’empatia travolta dei desideri, lo scorrimento che non è misura ma stato di veglia (e mi ricollego al precedente titolo poetico dell’autore “La veglia del sonnambulo”). Come allora ondeggiare sui detriti e le insidie, nella testimonianza dei versi...”si è mai là dove si vorrebbe/ soprattutto nei giorni di pioggia/ quella sghemba e sottile/ intermittente con la battente”; oltre l’apertura verso sviluppi inattesi e indocili. “Diremo più tardi quello che deve essere detto”, scriveva Franco Fortini in “Paesaggio con serpente”, “Per ora guardate la bella curva dell’oleandro,/ i lampi della magnolia”; e il guardare di Fusé è un imprimersi le sequenze, alla cadenza di un tempo musicale e mistico. Il ritmo accondiscende a strutture eclatanti di esiti linguisticamente felici: “la pioggia s’impioggia s’impiovasca/ ma questa è pioggerella/ non l’acquazzonesco”, ed allora coniuga la strofa nella sua collocazione visuale il passo desto e deciso della ricerca consapevole e critica. C’è una costante necessità di domande urbane, empatici silenzi, tempi ricorrenti ma impalpabili; la soglia invita ad un passo arduo, spesso incerto, che obbliga ad un quotidiano, minimo coraggio. La stessa implorazione, la sua possibilità, è già determinato sollievo, mobilità interpretabile nelle cromie del flusso quale il verso lungo: “fino al mare porto arso di un salpare al plurale”. Sembra quasi un desiderio d’incontri imprevisti capaci di superare i limiti del definibile e dell’imponibile (tema toccato da Fusé nel suo volume in prosa “L’astrazione non è la mia passione principale”); un senso di coltivato smarrimento in potenzialità di stimoli eversivi. Potente l’immagine della cenere a testimonianza di un respiro dall’individuale all’universale, nella traduzione di un ben altro impulso rispetto a quello di un semplice calcolo temporale asettico. Ci appare, quindi, un Adelio Fusé in viaggio, desideroso di conciliare gli estremi del presente con le propaggini dell’infinito, rimarcando una saggezza ironica: “se ti affretti all’osteria sul canale/ avremo un giro di bicchieri”.
                                                                                                                                  Andrea Rompianesi

 

Michele Prenna, Le parole cercate, Macchione editore, Varese, 2005

  UN REGALO DI PAROLE, MA NON SOLO È con vero plaisir che ho letto questa silloge di poesie regalatami dall’amico Michele. Veri e propri rit...