La civiltà romana, ai suoi primordi, aveva espresso fra le
sue più alte forme di religione e di cultura la venerazione per i propri
famigliari: i cosiddetti “Penati”,
che, affiancati ai tradizionali “Lari”,
vegliavano sull’andamento domestico unendo in una sorta di “amorosi sensi” il passato, il presente
ed il futuro. Sulla stessa linea gli Incas adoravano “Pachamama”, la Grande Madre, che vigilava sul buon andamento del
desco permettendone lo sviluppo e la continuità attraverso i prodotti della
terra. Era la dea che nel ciclo delle stagioni acconsentiva e dirigeva la vita.
“Per Prodigio d’amore” richiama sotto
un certo aspetto, e comunque in una visione del tutto contemporanea, entrambe
le concezioni religiose appena sottolineate. Da una parte propone quella
particolare devozione per la famiglia sotto le ali protettive di Dio (“Tu sei il Signore/ che segue i miei passi
sulle strade”) e dall’altra presenta il ritmo del tempo imbrancato nel
lavoro febbrile ma propizio e vitale dei campi (“Nei solchi tracciati dalla marra/ spuntano i primi frutti della terra”).
Si può affermare che ogni pagina della silloge poetica di Antonio Marcello
Villucci ripercorre un rapporto intimo, intenso e religioso fra l’autore e la
propria famiglia, condotto nell’armonia generale del tempo e della natura. Il
richiamo al passato offre lo spunto per una riflessione sul presente nella
convinzione che sia quasi d’obbligo lasciare una traccia di sé, così come gli
avi avevano dimostrato e proposto. Non è però un’eredità materiale quella che
il poeta ha ricevuto e che a sua volta affiderà ai posteri, bensì spirituale e
letteraria “per nuovi orizzonti/ lungo la
sequenza degli anni”. E in un simile percorso “di libri nell’età/ che tende all’infinito” si distende e si amplia
lo sguardo di Antonio Marcello Villucci tra “una
capanna di paglia”, una “casa di
povera gente”, “un dagherrotipo ingiallito”, alcune “dimore signorili” esaltate dalla “policromia dei marmi”, nella stessa Amatrice ferita “dalle faglie della Terra”, mentre
ricalca le orme che il viaggio della sua vita gli ha concesso e che ora tende
ad esaurirsi (“Ora erompe la vecchiaia/
spenta e dolente/ nell’opaco cielo invernale”). E non sono solo i ricordi che
si affacciano serenamente con dolcezza e delicatezza amorevoli, ma anche le
cose, gli oggetti (del quotidiano e non), la natura stessa che si ripete a
distanza di anni (“Nelle sere fredde
d’inverno/ m’era compagno mio padre”; “mentre la mamma sullo sporto della
panca/ arredava di scarpe, corpetto e gonnella/ l’ultima nata in uscita per la
festa”; “Il nonno in riposo sulla panca/ sogna le fatiche che l’attendono
l’indomani”). Tutto ciò regola e regala i versi in un andante continuo,
armonioso e ben strutturato, offrendo al lettore il ristorno di una convivenza
a dir poco perfetta, sebbene spesso intrisa di dolore e nel dolore redenta,
perché a supporto rimane la fede, la consapevolezza di un arrivederci al
domani, nella dimenticanza della tristezza dell’oggi (“Incappai nel turbine del Nulla/ quasi a pelo d’acqua,/ quando un
angelo o un dio/ mi fecero d’àncora soccorso”; “Due lastre in marmo
sovrapposte/ avranno i nostri volti”). La natura, in questo quadro, fa da
sfondo e supporta, in una visione che alcuni potrebbero definire panica, il
poeta, invitandolo al raccoglimento e alla riflessione (“Sulle mie tracce s’adunano/ ninfe ed Oreadi in ascolto”; “Mi porto
dentro il profumo dei fiori”; “Con l’alba l’anima lascia i tremori notturni”).
E, attraverso la sublimazione della natura, soffuso nei versi si libra l’amore,
che propone d’altra parte - e giustamente - il titolo dell’opera. E’ l’amore
che l’autore devotamente rivolge al padre e alla madre in momenti che ne
esaltano l’autorità e l’influenza per l’impegno terreno e per la consacrazione
del “dopo-vita”; è l’amore per i
nonni che ne rammenta i sacrifici e la lealtà, nonché la pervicacia educativa (“Giuseppa aveva tirato su i figli/ timorati
di Dio ma anche cresciuti/ tra abbondanza e doveri/ mentre il suo sposo era su
nave oltreoceano”); è l’amore per la moglie (“Sfioro in sogno il tuo volto”; “Ascoltavo la tua voce di fanciulla/
resa varia da un refolo di vento/ che mi rendeva la gioia/ d’altri chiari
mattini”); è l’amore “Per la mia
ultima nata” o per il nipote Lorenzo: in una parola è il prodigio. D’amore, appunto.
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