La consapevolezza dell’impotenza della parola e l’imperativo etico di
denunciare il negativo dell’oggi
Queste liriche
di cui Enea Biumi (alias Giuliano Mangano) ci
fa dono segnano un importante momento della sua inesausta ricerca esistenziale
e artistico-letteraria che lo ha visto cimentarsi in diversi ambiti: dalla
musica, al romanzo, al teatro. Il
denominatore che accomuna questa molteplicità di esperienze e percorre come una
filigrana in particolare i testi di questa raccolta, è costituito dall’intento
di disegnare un quadro a tinte
fosche dell’oggi tanto celebrata
mondializzazione, colta dalla prospettiva di chi ne coglie e soffre nella
propria carne i contraccolpi laceranti e distruttivi.
II titolo Maris Ast, “Ci sono
feriti”, trae spunto infatti da un’
espressione in lingua ‘pashtu’ presente in un episodio di Buskashì: viaggio dentro la guerra, il racconto-testimonianza di Gino Strada sulla guerra in Afghanistan,
pubblicato nel 2002. In effetti i
quarantaquattro testi della silloge rappresentano una mondo umano ‘ferito’, massacrato, condotto
verso l’annichilamento da guerre continue e atroci che, se sono state una costante del secolo scorso, hanno
anche sinistramente attraversato i primi vent’anni del nuovo millennio. L’intenzione
di gettare uno sguardo non sentimentale ma oggettivo sulla realtà si rivela
forse nell’assenza di titoli: le poesie sono solo numerate. Le conseguenze
tragiche dei conflitti, scatenati da una rinnovata aggressività economica e da
fanatismo ideologico-religioso, sono pertanto violentemente proiettate
dall’autore sotto i nostri occhi senza
compiaciuti sentimentalismi. Fin dalla prima lirica che non casualmente si apre
con il drammatico annuncio “Maris Ast”, urlato e ripetuto in più momenti della
composizione, dominano immagini di
disperazione e di morte: “E gli occhi rifuggono gli occhi / Le
mani a implorare / Sotto la tenda lo spazio / Della vita breve // Fuori il
vento spezza le ossa // Una bomba / Si avverte dopo / Polvere e schegge”. Alla
radice dell’ispirazione biumiana sta dunque l’esigenza etica di osservare con
sguardo fermo il negativo della realtà
storica, assumendo una netta posizione a fianco delle vittime, degli
emarginati, degli sconfitti sfuggendo a facili cedimenti populistici. Nella
seconda lirica assistiamo infatti all’emblematica contrapposizione tra
l’indifesa fragilità di un bambino e la durezza cieca, anonima dei soldati:
“Come la stampella di un bimbo / Che in viso porta l’affanno // Mentre
irrompono soldati / Con l’inganno”. In questi versi va colto l’efficace uso
della rima che associa e contrappone due parole dal significato antitetico: l’
‘affanno’ è infatti la manifestazione immediata e irriflessa dello stato d’animo di sgomento che assale la
vittima; l’ ‘inganno’, nasce dall’uso freddo e perverso della riflessione
attuato dal carnefice.
La guerra è d’altra parte una costante di quella angosciosa e
distruttiva accelerazione storica che l’umanità ha vissuto già nel XIX e XX secolo. Ecco infatti, nella lirica Sei, che l’autore rievoca la terribile
esperienza che il popolo italiano ha vissuto con la Prima Guerra Mondiale,
contrapponendo sarcasticamente al bollettino enfatico della vittoria emanato dagli
alti gradi militari un desolato e aspro commento morale: “Per rivolgersi ai
morti / Necessita il rispetto / E non le solite balle / Di terre promesse / Ma
mai mantenute”(Sei). Il destino di
sconfitta dei ‘ragazzi del ’99’ mandati al massacro della guerra, sembra
riproporsi, in una sinistra corrispondenza storica, in quello dei giovani del ’49, la generazione del Sessantotto,
condannata a vedere tragicamente bruciate in breve tempo le proprie speranze di
liberazione esistenziale e politica: “I ragazzi del 49 sono una nave incagliata
/ Che i turisti invadono per la foto ricordo / Sono un ponte crollato” (tredici).
Ma l’intento di affrontare e rappresentare i conflitti e i drammi del mondo attuale dal punto di vista di una
rarefatta universalità generalizzante può trasformare la doverosa denuncia del male in stucchevole retorica,
per quanto dignitosa e austera. Biumi sfugge a questo rischio filtrando i
grandi eventi dal punto di vista di una vicenda individuale. Ce ne offre un esempio la lirica Sette, dove l’evocazione poetica è
innescata probabilmente dalla visione della foto del nonno dell’autore, fante nella Prima Guerra Mondiale, qui
rappresentato sullo sfondo della desolazione della trincea e della miseria
domestica: “C’era un’umida stanza / La foto del nonno in trincea / O
prigioniero alle Tofane / Il cesso in comune / Fuori / Sul ballatoio ringhiera / La carne quando
c’era se c’era / Una briciola di pane / Che doveva durare”.
La lucida e impietosa diagnosi dell’autore sul mondo contemporaneo evidenzia
in diversi testi la violenza indiretta che, su un’umanità oppressa e umiliata,
esercitano le tecnologie informatiche, i mass media, le ideologie ufficiali
religiose e politiche, la morale ipocrita e i falsi valori delle classi dominanti a volte purtroppo
introiettati dalle stesse vittime: i ceti subalterni. Nella lirica Nove l’interno domestico piccolo
borghese o proletario tradisce il fastidio, la ripugnanza spontanea dell’autore per una ritualità religiosa che
negli anni sessanta era perversamente intrecciata alla pubblicità televisiva: “Lo
dice anche carosello / Che divide il giorno dalla notte / L’adulto dal bambino
// E c’è più gusto per Natale / Il papa con le sue tante lingue / E la
benedizione / Che si vede tutta San Pietro in festa”. Ancora più risentita, in quanto mossa da una
religiosità autentica, è la condanna
polemica di una Chiesa fondata sul denaro e coinvolta in scandali, che traspare
nella lirica Quarantatré, dove gli
accenti polemici sono strappati a una stucchevole ovvietà grazie a eleganti e
ironici giochi sintattici: “Sebbene Pietro non avesse una banca / Oggi le
banche hanno Pietro / E uccide il denaro / Come la mitraglia / Orfani non solo
di guerra”. Il trionfo di una società che ferocemente e programmaticamente
sembra votata alla manipolazione delle coscienze in funzione del dominio è
angosciosamente condannato nella martellata
rassegna dei molteplici e sinistri ‘idola’ che oggi imperversano: “Il diosesso,
Il dioepulone, Il diomaschera, Il diotivù / Dell'audience, Il dioassassino, il
dioguerra” (Trentatré).
In questo quadro anche la funzione poetica sembra aver perduto il suo
senso ed essere ridotta al silenzio dal trionfo della risibile triade
‘educativa’ imposta alle nuove generazioni: informatica, impresa, inglese: “Attardati
tra le calli / I poeti / Silenzio immane / Oltre la siepe / Il nulla che
l’animo travolge / Produzione efficienza consumo / È il patto / Informatica impresa
inglese / E niente illusioni / Perché la poesia è morta”. (Trentaquattro) Contemporaneamente impazza la manipolazione di
presuntuosi e ignoranti ‘mezzibusti televisivi’: “Nell’affanno i mezzibusti tv
/ Annunciano guerre” (Trentaquattro) e “I reality condannano i giornali
/ A editare bugie” (Diciannove).
Emerge il quadro di un’umanità in rovina, ridotta in frammenti tra loro incomunicanti, costituita da
un’infinità di disperazioni individuali prive di speranza di riscatto: “Il
clochard / Sotto il ponte / Che riappare improvviso e reclama // Il suo ieri
negato / Il suo oggi sconsolato / Il suo domani ingarbugliato (Quattordici). L’esito allora non potrà
che essere la negazione dell’altro in una feroce, intolleranza omicida o la
negazione di sé nel suicidio cinicamente commentato dall’indifferenza altrui: “Di
questi tempi è facile impazzire / Darsi fuoco / Buttarsi da un balcone / Mentre
il deputato adempie ai suoi doveri / Tra banchetti e cene elettorali” (Quarantuno). Lo stesso ‘io’ individuale
appare irrimediabilmente compromesso se “Qualche luce: la natura aggredita/ Si
sottrae anche il sogno / Di chi / Un tempo urlava / “Io sono” / Ora / Ora”. (Trentotto). All’inferno dell’oggi non
esiste allora alcuna possibilità di opposizione, alcun punto di svolta, alcun
‘principio di resistenza’? Forse qualche spiraglio di luce, qualche lacerto di
speranza Biumi affida, per quanto
dubitosamente, alla natura che, se aggredita e violentata dall’uomo, pur ci schiude la possibilità di uno sguardo positivo
sul mondo. Dopo un violento temporale notturno, una ‘topos’ classico nella
nostra tradizione lirica da Leopardi a Pascoli,
il mondo gioiosamente rinasce: “L’indomani
all’alba / L’acqua redime / La sua furia sull’asfalto / Respirare al nuovo
cielo / Nel cuore lago ritrovato / Vanificando inganni // Anche il sole adesso
/ S’è levato”. (Ventitré)
Poeta
eminentemente visivo (non casualmente in epigrafe alla silloge sono citati i
versi dell’amico pittore Micharvegas), Biumi ricorre, nelle liriche più direttamente
politiche, a immagini potenti e cariche
di espressività che ricordano Goya (Los
fusiliamentos), Picasso (Massacro in
Corea), l’espressionismo pittorico tedesco del primo Novecento che
testimoniarono le stragi della Prima guerra mondiale (George Grosz, Otto Dix). Il
ricorso a una prospettiva di rappresentazione a più voci segnalato dall’alternarsi
della grafia corsiva con quella a tondo,
la mediazione frequente di un ’si’ impersonale che sostituisce la voce diretta dell’io poetante, indicano
l’impotenza della stessa volontà di testimoniare l’orrore. La disposizione
grafica verticale dei versi, l’assenza di titoli (le liriche sono nudamente
enumerate), conferiscono alla raccolta l’austerità dell’ epitaffio, dicono la
severa necessità della denuncia, abolendo a qualsiasi orpello retorico; infine la
sintassi nominale, il ricorso ad assonanze volutamente banali, ridotte spesso a
un acciottolio di rime baciate, manifestano lo scacco: l’impossibilità di dare
una qualsiasi coerenza all’irrazionalità presente nel mondo, la consapevole
rinuncia a un mistificante ‘sublime’, ma
al tempo stesso l’impulso istintivo a ‘dire’ il male. L’unica, precaria,
ipotesi di redenzione riposa allora
paradossalmente nella musica, nell’accordo di voci, nel canto poetico: “Ma il
canto d’un rabbino / S’accorda ad un muezzin / In questa notte invernale che il
gelo/ Ti offende / E un blues avanza nei corpi cadenzati / Di neri suonatori” (Trentaquattro).
Gianfranco Gavianu
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