martedì 28 luglio 2020

Tiziano Rossi “Piccola orchestra” (Edizioni La Vita Felice, 2020)




Tiziano Rossi, poeta di lunga e accreditata militanza letteraria, ha dato alle stampe un testo che raccoglie brevissime prose essenziali, “Piccola orchestra”, definite antifavole e dicerie. Non nuovo a questa formula espressiva, Rossi sperimenta l’uso calibrato di un lavoro teso, come dice nella prefazione Stefano Raimondi, ad una vera e propria sottrazione del dire, in una prosa sostanzialmente ancora determinata ad essere comunque narrante. Il tutto addensa climi esigibili di costante e signorile ironia, con aspetti di vera e propria comicità in un teatro di figure che caratterizzano ogni profilo. Molte conclusioni rapide dei brevi passi indicano la via inevitabile di un epilogo spesso secco e amaro, ma senza che l’autore perda il suo distacco misurato e la sua funzione di osservatore lucido e disincantato; indicativo il personaggio affezionato alla borsa dell’acqua calda con la quale instaura un rapporto affettivo, del tutto impossibile invece nei confronti di un cucciolo di cane, cacciato a pedate. Una fonte d’ironia a volte cinica che intende smascherare ruoli superficialmente acquisiti e che , in realtà, nascondono tratti imprevedibili e spiazzanti. Anche le figure animali assumono connotazioni capaci di rappresentare esiti e stati che volgono a sviluppi classici nel paradosso che si fa insegnamento, esprimendo difetti e toni esplicitamente antropomorfici.  Il percorso dei racconti tende a riferire escludendo, sia negli  aspetti più concreti che in quelli surreali, una qualsiasi espressione consolatoria o giustificativa. La traccia registra, attraverso l’osservazione dell’autore, con un elegante distacco, ironico e cinico, il semplice svolgersi di eventi che improvvisamente si concludono in un carattere di sospensione privo di risposta. Scrive Tiziano Rossi, in un finale esemplare: “ Ora quella morbidissima cadenza del mezzo sta lievitando ed ecco che l’autobus addirittura si libra sereno nell’aria: è un fatto che nessuno ha voglia di interpretare”. Sembra proprio che l’intenzione dell’autore sia quella di comunicare episodi distaccati e avulsi da una qualsiasi logica prevedibile e capaci di porci all’osservazione del minimo atto in sé estraneo alla spiegazione, quasi che la vitalità del contesto non necessiti di elementi assolutori per realizzarsi e ci mantenga nell’impossibilità di asserire. La scrittura si presenta sempre di una totale e assoluta semplicità; un dicibile posizionato nel ritmo costante dei brevissimi racconti, come tappe di un succedersi di attimi regolati da un timbro di pacata inevitabilità. Tale clima appare riconfermarsi anche nella sezione che coinvolge nomi di poeti e filosofi anch’essi inseriti in questa equilibrata partitura che determina il luogo del possibile e, nello stesso tempo, del surreale, coniugata in una sintesi corale.
                                                                                                                       Andrea Rompianesi


sabato 11 luglio 2020

martedì 7 luglio 2020

Gianfranco Galante, "Volevo raccontare una storia...", Macchione Editore, Varese, 2020



“Non è mai facile raccontare sé stessi ed avere il coraggio d’esporsi al giudizio di chi ignora non conoscendoti”: così Gianfranco Galante introduce le sue pagine di diario, mettendosi a nudo e a disposizione del lettore. Sono pagine di memoria – è ancora l’autore a giustificarsi – perché “il ricordo è parte del vivere del nostro presente e ci accompagnerà nel futuro quando il presente sarà passato”.

Galante, in effetti, non è nuovo alle rivelazioni del sé. Come poeta, infatti, ha già abbondantemente abituato il lettore al racconto delle sue emozioni. Con la prosa, però, l’operazione assume una connotazione centripeta ancorché compiuta. Il sé diventa l’elemento da scandagliare pagina per pagina e, pagina per pagina, il discrimine fra ricordo e sentimento si fa consapevolezza di vita e di crescita costante. La strada, quindi, che l’autore vuole percorrere, ha da situarsi proprio in quei momenti fondativi che sono l’inizio di una esistenza che il destino gli ha preparato e che lui perlustrerà fra valori e affetti irrinunciabili.

“Ho voluto raccontare storie di vita vissuta, riflessioni personali, piccoli cenni storici; offro la conoscenza, a chi interessi, di un po’ di me” suggerisce, visualizzando poi un fuoco di lettura che ci permette una migliore comprensione del testo. E in ciò disvela un binomio ben rilevabile e affatto trascurabile: la Sicilia – del cui imprinting va fiero e orgoglioso – e la famiglia – che gli ha trasmesso i valori di libertà, onestà e amicizia.

          Siamo di fronte a un momento importante della sua formazione: quello che in letteratura si chiama Bildungsroman e che riesce a decifrare il primo percorso dello scrittore come apprendistato per la vita, sia del protagonista, sia dell’autore. In questo caso autore e protagonista sono un tutt’uno, per cui, allo stesso modo, in questo lungo racconto della propria infanzia Gianfranco Galante affronta i presupposti per gettare le basi del suo futuro: la conoscenza di sé. Nel ricordo dei suoi primi passi sul sentiero della vita, il protagonista-autore si identifica e si discerne.

Si tratta, allora, di un viaggio della memoria. Ma si sa che il viaggio, nell’antichità come nel presente, è un topos per indicare crescita e consapevolezza. Ulisse, Enea, lo stesso Telemaco, per colpa degli dei girovagano tra un porto e l’altro in mezzo a mille pericoli, ma alla fine raggiungono la propria meta più consapevoli e più forti di prima. In tempi più vicini a noi On the road di Jack Kerouac offre il medesimo risultato. almeno, questa è l'idea di John Leland, accettata e adottata anche da altri critici, dove si sostiene che si tratta di un romanzo ricco di lezioni su come crescere. Se vogliamo rimanere nell’ambito della formazione, non mancano esempi di viaggio anche in campo religioso. Le antiche religioni politeistiche, per esempio, prefiguravano iniziazioni attraverso viaggi di mistero che rafforzassero l’anima e il corpo. Dante ci fa attraversare, a mezzo del suo cammino, inferno e purgatorio per raggiungere il paradiso, cioè la piena consapevolezza del sé.

Ecco, allora, che il catecumeno Gianfranco ha la sua iniziazione in questo viaggio-memoria nella terra siciliana. E lì si riconosce, come direbbe Ungaretti, docile fibra dell’universo. Lì si intrecciano e si intersecano i rapporti umani, col vicinato, con i parenti – passati, presenti e venturi – con gli amici o con emeriti sconosciuti. Lì il protagonista cresce ed impara, accompagnato da ampie e sincere riflessioni sul perché della vita e della morte, della violenza e della sopraffazione, dell’amicizia e del perdono, dell’ipocrisia e della pazzia.

La sua formazione avviene negli anni sessanta – l’autore è nato nel 1964. Ed oggi – dichiara – sembra trascorso un secolo. Lo ribadisce spesso. La sua sicilianità sta in questo atto di fede assoluta a quel mondo e a quei modi d’essere e di pensare. Mentre in Italia, al nord, che a tratti frequenta e che diverrà dagli anni settanta in poi la sua dimora definitiva, è già in pieno sviluppo il boom economico e industriale, la società del sud vive ancora in tradizioni ancestrali e condizioni lontane anni luce dal progresso. E Galante preferisce questa a quella, perché la sente più genuina, meno artefatta, più naturale. Ci sono disagi, è vero. C’è un’apparente maggior povertà. Ma c’è una ricchezza di umanità incomparabile a qualsiasi altra situazione.

Significativa e paradigmatica è la contrapposizione tra abitudini e comportamenti diversi se non opposti tra nord e sud. Non c’è un giudizio di valore, beninteso. Entrambi sono accettabili perché nascono e si sviluppano in contesti diversi. Può essere emblematico l’episodio che Gianfranco narra del suo arrivo per la prima volta all’oratorio di Sant’Ambrogio in Varese. Vede ed osserva ragazzini della sua età che non fanno baccano, giocano senza insultarsi, sono educati e gentili fino ad assomigliare quasi a dei robot asettici. Lui è abituato alle urla, ai cazzotti, alle birichinate. Due mondi differenti, sia pur antitetici e complementari.

La povertà non è miseria. Non è disordine o trascuratezza. L’autore ce lo ripropone più volte. E se manca la luce elettrica o la radio, poco importa. Se è necessario percorrere chilometri e chilometri a piedi o sul carretto trainato dal mulo per poter vedere i propri parenti non è un dramma. Anzi: è la felicità. E’ la possibilità di incontrare altre persone, di soffermarsi a parlare, di sapere notizie. E’ un modus vivendi che si contrappone in modo considerevole alla frenesia di un mondo moderno che misura la vita in secondi. Lì la vita è misurata in stagioni. E ancora una volta c’è da sottolineare che non bisogna intravedere nessuna povertà in quel modo d’essere e comportarsi, ma ricchezza.

Galante confesserà di fatto più avanti: “la ricchezza la portavo dentro: dignità dell’essere, educazione, senso del dovere, senso della famiglia, senso del sacrificio a prescindere, conoscenza delle priorità, importanza dei valori, timor di Dio, rispetto del credo altrui, forza d’animo, forza di reazione ai disagi, umiltà, capacità di perdono”.  Sono infatti questi i valori ereditati dall’insegnamento dei suoi genitori, dei suoi nonni, dei suoi zii. Valori di cui andar fiero. Valori di una terra che fa soffrire e gioire. Valori di libertà.

Accanto alle motivazioni personali di crescita e sviluppo, Galante mette in rilievo anche il mondo contadino. Ne descrive il paesaggio, con ammirazione e dovizia di termini. Ne valuta lo sforzo e il sacrificio lavorativo della vita dei campi, in quel pezzo di Sicilia, che crea per lui, bambino, anche un clima di serenità e di spensieratezza. Vede il sudore dei suoi nonni e dei suoi zii. E ne vuole partecipare. Perché è in quel sudore – capisce –  che si colloca la pienezza della vita. Perché è in quel rapporto uomo-natura, ancestrale, che si compie la sua formazione. “Davanti ai miei occhi – sottolinea orgogliosamente – c’è il panorama della immensa valle di Segesta, il tempio ed il verde e giallo dei terreni della collina di fronte (…) Ecco perché questo luogo ha il fascino di cui sono vittima. E mi sento vivo più che mai e parte dell’armonia di quel posto.”

La valle di Segesta, è inutile rammentarlo, ha in sé la storia e la cultura che hanno formato il sapere occidentale.

Si capisce così il suo legame con la Sicilia e con la tradizione. Il suo essere preso in quel vortice magico che è il passato in contrapposizione al piatto e quasi insignificante presente. C’è tanta nostalgia per quel mondo, per la sua infanzia, per quell’umanità remota ma ancora viva nel suo animo. Ancora capace di commozione e di ammirazione. Si comprende allora il perché Galante abbia voluto rievocare tutto ciò, riportarlo in pagine di diario e trasmetterlo al fine di non disperderlo e dimenticarsene colpevolmente.

In queste pagine offerte al lettore si ritrovano gesti e sentimenti ormai desueti. Quando ad esempio Galante descrive il lavoro che il nonno e lo zio fanno nei campi, la loro attenzione quasi religiosa nei confronti dei prodotti della natura; quando raffigura i suoi compiti mattutini – rassettare la stalla, dar da mangiare alle galline, ripulire l’aia –; quando mostra la nonna intenta a preparare il pane da infornare, o a coltivare l’orto, o a preparare la cena; si ha come l’impressione di essere lì pure noi a gustare di quei momenti, a sentire quei sapori, a godere di quegli odori.

Né va dimenticato l’affetto reverenziale che Gianfranco nutre nei confronti dei propri genitori, più volte rammentati e portati in palmo di mano. Grazie a loro, oltre che ai nonni e agli zii, il viaggio della memoria acquista significativamente valore. La sicilianità ha uno scatto intenso, duraturo nel tempo. Ritrova la continuità dell’oggi, sia pur diverso, sia pur, forse, meno brillante e appassionato dell’ieri. Ma l’ieri è servito per crescere, per conoscere e conoscersi, per preparare i muscoli per l’oggi. Per questo non va dimenticato. Ma scritto e tramandato. Fosse anche solo per sé.

 

Enea Biumi


domenica 5 luglio 2020

Elio Tavilla “La gravità terrestre” (Musicaos Editore, 2020)



Nella poesia che apre la raccolta di versi in sette sezioni “La gravità terrestre” del poeta di origine siciliana e residente a Modena, Elio Tavilla, è già presente non solo una dichiarata concezione che si distingue nella struttura tecnica del testo stesso, nella compattezza di versi che concentrano una solidità espressiva di abilissima tensione, ma anche un contenuto a traccia espositiva, aperto a intervalli dai due punti che indicano, in corso di scrittura, il segno tangibile di una sofferenza privata e civile dove è il settore animato del prospetto giovanile ad essere esposto alla caduta dei progetti; “ma infine qui è il nero dominante/ il tuttobianco, tuttonero nullasembiante/ torna l’ostrica d’infanzia, schiude bella/ l’apparenza del rossore sulle guance”. E’ una perturbante occasione dicibile di terreni adibiti alle lotte, ostacoli e destini, intenzioni narrative interrotte, pene mature, tempi davvero incerti che riportano ad un bivio. E’ notte aperta anche sulle aspre condizioni che caratterizzano la personale identità di chi accoglie gli effetti riflettenti agnizioni che non tralasciano la ormai separatezza del luogo inglobato e trasfigurato nella sua decadenza “anche sopra gli argini, nella fitta foresta/ delle aziende metallurgiche addentrate/ sino quasi alla città che più non è/ periferia”. Una parvenza d’amore deve emergere nella durezza della strada, nella inesorabilità della notte, quando la notte è domanda, è inascoltato regesto di assidui dintorni per lo più immediati. Sono quasi strati di esaurita tolleranza verso il sopruso, di graduale recupero di una necessaria sensibilità civile, attraverso lo smarrimento volontario e, allo stesso tempo, imposto dalla distrazione contestuale di un riflesso descrittivo che insinua rimandi di rima e assonanza irregolari e distanziati nella partitura esposta agli intrecci del ritentare la domanda dello sguardo. Inchioda al fisso della pagina il tangibile randagio, il vivente che conosce il rifiuto, lo sbando, la persecuzione, la separatezza che vibra nella fissità di “un chiostro di ossa e nervi gettati/ nel pattume”. E’ qualcosa che ci può tenere legati alla terra, ad una condizione minerale, terrestre appunto, dove la complessità delle implicazioni distoglie dalla intransigenza del dato reiterante la dipendenza. Il dramma anticipa eventi che riguardano la tangibile pelle degli umani, lo strazio inascoltabile perché scartato, tra uno schermo di gomma e un fuoco nemico; anche sognare in fondo, scrive Tavilla, è un gesto “poi/ spalanchi la marsina e scappi”. Si approda a sonni incerti e crepuscoli avanzati, sere oggetto di tentazione, carezze inconsolabili, avvistamento di lago. Dopo la difficoltà di scorgere le insegne che dovrebbero interpretare il nostro passaggio, dopo le insonnie, sono ancora figure giovanili a disegnare il possibile ulteriore destino, allora “basterebbe/ tremare di candore e di innocenza”. Le storie di guerre e di nemici, di sudore e sangue, di cieli incombenti e di domande, svelano la determinazione di una sintesi che racchiude la complessità di attese rivolte a forme altre, vie d’uscita. Ma la conclusione contenutistica di Elio Tavilla è più amara, nella conferma di un mondo che esprime l’infamia mai cicatrizzata nelle schiene “vergate a sangue”; in un trascorrere, insomma, in un epilogo, visto come un meccanismo non conoscibile e contratto in una desolazione che, per l’autore, solo il rapido passaggio testimonia.

 

                                                                                                                                Andrea Rompianesi


martedì 23 giugno 2020

Emanuele Bettini “Il giorno e l’amore” (Book Editore, 2020)

 
 
“Quando la notte si ritira, lasciando filtrare la luce, lo sguardo cerca la dimensione del nuovo giorno e appare l’Alba. Presso gli antichi greci si chiamava Eos...”. Con tale premessa introduce il suo esito in poesia “Il giorno e l’amore”, Emanuele Bettini, scrittore, traduttore, storico, non nuovo alla vicinanza tematica con spunti riferiti alla sensibilità ricettiva verso il mito greco e gli intrecci culturali, stimolati dalla opzione del dialogo e dalle suggestioni coerenti. E’ un rivolgersi lirico alla seconda persona singolare, ove le attese, quasi affilate da rosee dita, coniugano silenti aspettative e travagli di inabissati contorni. E’ corollario di un’alba simbolica che tratteggia il verticalismo dei testi, comportando esitazioni diramate attraverso lo scalare dei pertugi e degli anfratti offerti alla dinamica delle variazioni fonetiche e termiche; quasi un ancoraggio disciolto nella possibilità del palpito, oltre un’ ansa ove “la notte s’acquieta/ nel remare della mia barca” scrive Bettini, osando la tensione della prossimità auspicata o echeggiata perché “”Il fiume ha spazzato/ la piena dei ricordi”. Si segnala, leggero, un tono di abbandono all’inesorabile lontananza di ciò che evoca un passato remoto, per questo non solo sostanzialmente mitizzato ma comunque esternato in un drappeggio “dove anche il pianto/ può essere/ tempesta/ irrefrenabile/ come vento/ contro le imposte/ chiuse dal tempo”. E il verso breve a vocazione di sintagma condiziona le vocalità dei sentimenti espressi in una condizione metatemporale. L’avvio indica plausibili esempi quali il volo impossibile di Icaro, la ricerca di Ulisse o Giasone. Ancor più struggente, poi, la vicenda di Orfeo e Euridice. Il canto poetico capace di commuovere gli dei ma non di evitare le ineluttabilità del destino. E’ una potenza amorosa quella che il poeta evoca, portandola alla contemplazione quotidiana dell’avvertibile sensibilità propria delle schegge di natura estendibili ai vigori diurni e alle contemplazioni serali. Le tessiture auspicate contendono al controllo espressivo la dinamica del percepibile ascolto enumerato negli umori ansiosi della domanda. Croce, anima e canto, dunque, anafora e accenni di illocutorio concentrano la trama del reiterato accorrere a stilemi in coerenza di dettato. E’ sofferta e incessante ricerca di altro e di oltre, di un’aura femminile che sembra rievocare certe figure muse, angelicate, ritratte in percorsi poetici singolari quale fu, in un contesto mitomodernista, quello di un autore come Dorian Veruda, nelle conferme al dato ricettivo che concesse Rosita Copioli. Attenzioni quindi alle suggestioni della mancanza, quella che incide il segno quotidiano, libera l’invocazione e la domanda, “regala la rete dove la solitudine è furia/ che trascina la mia passione” scrive il poeta; decide le sorti di esiti in naufragio. Allora si affronta la difficile esperienza di saper interpretare tutto ciò che rifugge, che alimenta le strategie di risposta al disagio, quello che si accampa, che deturpa le possibili espressioni della nostra fuga impedita; accorpa i silenzi estroversi alla spazialità votati, determinando l’assedio costante che cinge i fianchi e allenta solo nell’attimo estorto della prevedibile resa, al timore esausto accogliente quei silenzi al rompere dell’alba, come tracciato in versi che furono di Francesco Marotta. Il sangue dirama segnali di ferite individuali e collettive, epoche segnate dalla rigenerazione dei propositi che ostentano consapevoli debolezze. Emanuele Bettini riconosce però il destino umanistico del tracciato: “persino l’acqua tra le pieghe della terra/ e più simile al volto/ che al deserto bagnato”. Un lirismo accompagna la pena del distacco dalle cose; il dicibile evoca l’accatastato oltraggio destrutturando il pensiero nell’opposta linearità del verso ed oltre... “c’è per tutti/ un po’ di pietà/ se il muro divide/ l’infinito dal cielo”.
Andrea Rompianesi
 

giovedì 11 giugno 2020

Alessandro Ricci “Tutte le poesie” (Europa Edizioni, 2019)

Singolare esito questo volume antologico, curato da Francesco Dalessandro, che ripropone l’insieme dell’opera poetica di Alessandro Ricci (1943-2004), figura particolarmente appartata e di profonda espressione stilistica. Il volume contiene i due titoli pubblicati in vita dall’autore (“Le segnalazioni mediante i fuochi”, “Indagini sul crollo”) e i tre editi postumi (“I cavalli del nemico”, “L’arpa romana”, “L’editto finale”). Come afferma Michele Ortore nella prefazione, la scrittura di Ricci è complessa ma per lo più “ragionativa”; aggiungerei particolarmente sofferta e attraversata da due corsi che anelano alla partecipazione esegetica. Da un lato la memoria storica e mitica che affonda le radici nei più articolati riferimenti all’antichità classica, dall’altro il personale e privato sentire posto all’offerta della pagina, l’io denudato da orpelli e svelato nel pudore del concesso; tale solo perché combattuto come ogni amore lacerato. Una connotazione evidente lo porta spesso all’uso calibrato del poemetto, ma sempre in una formula che riesce a valorizzare la tenuta timbrica del verso anche nell’approccio discorsivo, differenziandosi nettamente su questo piano da sviluppi e recuperi storicamente evocati da nomi e voci come avviene ad esempio nelle formule del monologo in versi proprio di un autore come Roberto Mussapi. Nella poetica di Ricci il tono è totalmente autentico, a volte irritato per una postura in esistenza mai scontata o prevedibile. L’appello della sua voce sulla pagina impone attenzione e domanda, quella ricezione accorta che scorge il guizzo esponenziale dove nasce inatteso. Al di là di un impianto ricco di sintagmi colti, latinismi, grecismi, arcaismi e tonalità policrome, quindi anche tracciate da espressioni più concrete e dicibili, una compattezza severa ed esigente conclude l’operato sulla pagina nel momento definitivo della delimitazione di ciò che svolge e che conquista inoltre il diritto alla vocalità immediata resa pensosa dall’uso dell’enjambement, dal dubbio che chiede prove d’amore impossibili. Ricci sembra quasi richiamare un dio a cui dice di non cedere, affacciandosi alla necessità della bellezza nella sua peculiare presenza in ogni cosa, pensando che la religiosità cristiana sostenga che bella sia l’anima sola. Tutto il contrario. E’ proprio il Cristianesimo, in realtà, quello autentico, che trova la bellezza nel concreto seme più piccolo, nella sua beltà creaturale ancora indifesa, proprio perché il cuore del messaggio evangelico ci rivela che il Regno è già tra noi, e qualsiasi intolleranza non può certo essere giustificata da chi ci invita persino ad amare i nemici. La domanda del poeta, allora, affonda nel solco della distribuzione di un bisogno emotivo, struggente e, allo stesso tempo, culturale, che sia auspicio di una vertigine pagata col prezzo della disputa, dell’irrequieto accadere dei crolli reiterati. Chi legge è spinto alla voglia di dialogare con l’autore, di soffermarsi su parentesi di trattato alla luce di una esigenza esistenziale misurata nella solidità di una figurazione mai gratuita, scontata; sempre acuta, invece, interrogativa, esigente perché mossa da quel rovello interiore e perenne che rivela l’intimità dell’artefice, lo nutre di squarci quotidiani e mitici che s’intrecciano. Particolarmente suggestivo anche l’uso del verso breve: “Nel golfo balenavano/ le correnti soltanto,/ in mosse pigre di nuvola”; quando è accorto il sentire di ciò che scuote, agita, “ed è già ieri, dilaga/ l’appena stato”, e ancora: “Poi ricomincia./ E’ una fine potente,/ spettacolare, da/ vergognarsi”. Il luogo, la topografia romana in particolare emerge in tratti estremamente nitidi e incisi, a volte quasi scolpiti da perizia nomade, perciò indocile: “Come hai fatto a estrarre un cielo/ dai tetti e rondini valorose e il colore/ ocra della città, o le conversazioni...”. Una maestria poietica concentra strutture lessicali in imprevisti innesti che rendono acuti e profondi i confini della versificazione e positivamente stupisce il tocco maturo del rimando: “Già dunque oltreautunno è arrivato qui,/ è carica la strada di gente calda/ sotto i cappotti e che chiasso bene o male/ si leva, tamburo assai più di pifferi cresce/ e sale ma non sbarazza/ questo freddo improvviso...”. Il tono di Alessandro Ricci è temerario, le sue strofe sanno dirsi pensanti e variabili nella lunghezza, in una conduzione abile e attenta del periodo; riavvolte nell’abdicazione a ciò che imprime l’usuale, scegliendo il recupero accolto nelle trepidazioni che guardano a storie e cenni proponenti le peculiarità dei riflessi classici di miti trascinati sulla strada randagia del vissuto, e quando le parole si fanno più comuni e transitabili è allora, in quel momento, che l’avvenuto rilascio pone i vocaboli in una successione imprevista. Li mischia nella concretezza del loro essere scrittura di pensiero. A volte, in lontananza, sembra di cogliere echi della poesia di Leopardi e Pascoli, annunci di un cammino nella vanità del tutto sul far della sera. Ricci è autore che incide i suoi versi sulla pelle del vissuto, in una partecipazione che non può dirsi mai parziale, ma interamente testimoniata dalla stessa forza di una corporeità gettata nello spazio della pagina quale luogo da abitare nella consapevolezza dello stesso rischio esistenziale. “Vissi della corona sul picco,/ il tempio nell’astratta nube/ di devozione che saliva, scoprendo poco/ a poco la linea di confine errante/ fra mare e rena, nella stagione nata/ insieme al giorno, all’ora...”; è l’erranza quindi in una visione duplice del vagare e del poter sbagliare, in una profonda domanda che incunea e svolge inquietudini agostiniane. C’é poi un senso di rimpianto diffuso echeggiante figure femminili, amori che hanno deluso; domanda sulla possibilità di trattenere qualcosa che inevitabilmente sfugge o non mantiene la peculiarità della promessa. I tempi si avvicinano, s’intrecciano; la sofferenza di Catullo è quella del contemporaneo sentire che ridisegna le agnizioni e ripete i timbri inagibili del rifiuto, dell’attardato ritrarsi, dell’inappagato contorno. Molto evocata la figura del padre, un riferimento di forte ausilio, una memoria esperita nella disanima del legame apparentemente perduto, scrive Alessandro Ricci: “E poi mai, mai/ potrò dirtelo e toccarti di nuovo”. Ma noi sappiamo che ogni bene consacra, rimane; così confidiamo in un incontro avvenuto, presente, notando che ancora “laggiù si leva/ il fumo delle colazioni”.
                                                                                                                                               Andrea Rompianesi
 


 

 

giovedì 5 marzo 2020

Enea Biumi, Rosa fresca aulentissima, ed. Genesi, Torino


Trascrivo qui la recensione dell'amica Annitta Di Mineo che coglie i vari aspetti del romanzo, sottolineandone in particolar modo la scrittura e la coralità.
Un giallo alla portata di tutti che ci invita a seguire l’indagine della morte di Terry, la ragazza più bella del paese, che tutti conoscono e nessuno riesce a dare una spiegazione a tale omicidio. Ma la caparbietà del maresciallo Panepinto ci inoltrerà nei meandri di un “ecosistema interno”, troppo spesso ridotto a una gabbia di personaggi illustri o meno di un piccolo paesino della provincia di Varese.
Ogni singolo dettaglio dei protagonisti non viene sottovalutato, anzi diviene strumento utile per schiarire la mente e comporre il puzzle.
Una narrazione di ampio respiro che tocca ogni aspetto della vita della vittima, dei protagonisti, dei compaesani e non solo, delle problematiche sociali e le sue convenzioni, naturalmente con grandi sorprese.
Per una volta non abbiamo una voce recitante, bensì la coralità paesana che impone una riflessione sulle loro azioni; una lenta ma inesorabile trasformazione, il suo progressivo scendere nelle pieghe più profonde e nascoste di una ristretta comunità montana, per seguire l’evoluzione della trama fino a identificare l’uccisore.
L’ intreccio spinge il lettore a voltare pagina velocemente, e al contempo a una meditazione sull’agire dell’uomo. Un delitto inspiegabile, in un vortice di colpi di scena, attraverso cui l’autore scruta l’angolo nero che ciascuno nasconde dentro di sé.
 Che dire? Un bel viaggio nei dintorni della provincia di Varese alla ricerca di un assassino con una guida meravigliosa: la scrittura di Enea Biumi, pregna di ricchezza lessicale e locuzioni dialettali che trasmettono gradevolezza, strappando perfino qualche risata.
Annitta Di Mineo

L'ANIMA nella Poesia di Prospero Cascini fotografata attraverso la PROPRIA, a cura di Salvatore Monetti

  La poesia, in molte delle sue forme, è molto più di un semplice esercizio linguistico o di un passatempo estetico. Essa è da meditazione. ...