La
silloge inizia con un’interrogazione che va ad approfondire il significato del
linguaggio in un contesto di suoni consonantici e onomatopeici, tra
allitterazioni e rimandi fonici, sottoponendo il lettore a soffermarsi per
riflettere il valore del messaggio, di ogni messaggio, poetico: “Ita ingùrti’ de sa
bòxi su siléntziu” (Che cosa inghiotte della voce il silenzio). In questo
passaggio lo scrittore traccia una linea di lettura che rimarca autorevolmente
e sapientemente il pensiero di una
comunità che ascolta e agisce di conseguenza, sottolineando che “su bùidu
chi s’obèridi” (il vuoto che si apre) si colma attraverso “sa
mandàda” (il dono), vale a dire, secondo la stessa spiegazione che ne offre
l’autore, “il dono reciproco della tradizione sarda. Quando una famiglia
avesse avuto di una derrata alimentare una quantità superiore al possibile
consumo del momento (tipicamente carne di maiale, dopo aver ucciso l’animale
allevato in casa, ma anche frutta o verdura), faceva dono del surplus ad altre
famiglie legate ad essa dal vincolo de sa mandàda, attendendosi di venire
ricambiata in futuro.” L’annotazione è importante perché svela la base e le
fondamenta dell’impianto dell’opera. Siamo di fronte ad una poesia che incarna
la cultura di un popolo e di quella cultura si fa portavoce. Ne è testimonianza,
senza dubbio, la seconda lirica della raccolta “Su nènniri” che mette
subito a disposizione del lettore gli strumenti per una opportuna conoscenza e
analisi. Si tratta, con il nènniri, di un rituale dalle radici molto antiche che trae la sua
origine dal culto millenario di Adone (come annota l’autore). Secondo la
tradizione sarda nel mercoledì delle ceneri, le donne devono preparare un vaso
con dei semi di grano da far germogliare al buio. I semi vengono depositati su
di un piatto con del cotone e vengono conservati al buio per cui i germogli
nasceranno di un colore pallido. Questa pratica non è nient’altro che un
simbolo che sta ad indicare, in ambito cristiano, la resurrezione di Cristo
avvenuta dopo tante sofferenze. In ambito pagano, invece, il collegamento è
dato dai rituali legati al dio Adone che celebravano la rinascita della natura
in primavera. D’altra parte se il seme non muore sotto terra, non ci sarà
nessuna fioritura, come sta scritto nel Vangelo di Giovanni. La morte in questo
caso è solo temporanea. Ma ci sarà un’altra morte, quella definitiva, che non
lascia spazio a ulteriori speranze, ma porterà lutto e lacrime: “is ògus nòstusu funti
dua’ làgrimas // chi èus arrennèsci a prangi.” (i nostri occhi sono due lacrime
// che riusciremo a piangere). Per questo “sa fentàna” (la finestra) diventa luogo
privilegiato per meditare oppure per farsene una ragione: “de cussu’ lògus innùi pàri’ / ca sa vida
e’ suspéndia” (di quei posti in cui sembra / che la vita è sospesa) Dato questo contesto
si fa più chiaro il titolo della
silloge “Passionis (passioni)” in cui l’autore si propone di tracciare
un iter di sentimenti e aspetti poliedrici che vanno dalle sofferenze di Cristo
al travaglio di donne e uomini alla ricerca di un bene e di una serenità per se
stessi o per i propri cari. In effetti il rapporto tra la passione di Cristo e
la passione dell’umanità è strettamente legato e conserva una valenza
universale. Il sangue di Cristo è quello dell’uomo, il piede di Maria che
schiaccia il serpente è il piede di ogni donna che sconfigge il dolore. “Su
pèi biancu de Maria asùb’ ’e sa cònca / de su calóru” (Il piede bianco
di Maria sopra la testa / del serpente.) Così Gesù assume l’identità di un
uomo qualsiasi perché “su chi no bòlis biri / e’ su córpus de Gésus prèn’ ’e brèmis” (Quel che non vuoi
vedere / è il corpo di Gesù pieno di vermi.) e la sua voce che grida dalla croce è
quella di un uomo “chi
nèmus intèndidi” (che nessuno sente). Ma tra la morte e la vita la demarcazione è sottile, quasi
invisibile. Così come è sottile l’ieri con l’oggi. Tanto che è necessario abbassarsi (cioè farsi piccoli, dimenticando se stessi) per ascoltare i vecchi, per sentire la loro voce e le loro storie. Non saremmo
nulla ora se non ci fossero stati “is antìgus” (gli antichi). Ed ecco
che il passato si salda al presente. Diventa testimone di ciò che siamo e che
facciamo. Allora “Tòcat a si scarèsci / su chi sciéusu, // castiài bèni,
ascutài.” (Bisogna dimenticare /
quello che sappiamo, // guardare bene, ascoltare.) perché solo ascoltando riusciamo a capire, forse, ciò che siamo
veramente. L’incontro con la tradizione diventa un incontro con la poesia che
si fa, ipso facto, garante del sapere. Infatti: “Su fuéddu chi circas dd’a’ cuàu / pòdit
essi in su còru // su pipìu ch’ìa’
domandàu / a nonnu sùu: poìta // no mi cantas a mèi puru / su chi cantas a
sólu?” (La
parola che cerchi l’ha nascosta / forse nel cuore // il bambino che aveva
domandato / a suo nonno: perché // non canti anche a me / quel che canti da
solo?) Come in un’orchestrazione sapiente l’ultima lirica si ricollega alla
prima. La poesia è linguaggio, è lo strumento che fa vibrare l’animo riempiendo
il silenzio, o il vuoto, di immagini e di sensazioni. La poesia travalica il
tempo mettendo in corrispondenza episodi e persone lontane, miti e leggende,
tradizioni e culture. Sebbene, alla fine, non ci sia risposta certa al dolore e
alla morte, la poesia si ostina ad esserci, a seguirci, a renderci consapevoli
e a porci pertanto continue interrogazioni che rimarranno senza riscontro: “it’e’ custu bisóngiu / de iscrìri?” (che
cos’è questo bisogno / di scrivere?)
Scrittura Nomade - Viaggio polidiomatico di Arte e Cultura - Variazioni sul tema scrittura
sabato 26 novembre 2022
Sergio Cicalò, Passionis – Passioni, Edizioni Cofine, Roma, 2022 PREMIO CITTÀ DI ISCHITELLA-PIETRO GIANNONE 2022
lunedì 7 novembre 2022
Andrea Rompianesi, Tracce di pellicola da film sulla costa di ponente, Book Editore, Riva del Po, 2022, € 15,00
C’è
sempre nell’opera di Andrea Rompianesi, sia in prosa che in poesia, un elemento
filosofico che lo contraddistingue. In questa nuova silloge l’autore si cimenta
apparentemente con fotogrammi come da film d’essai, ma al di là delle
immagini emerge chiaramente una diagnosi, ora estremamente realistica, ora
ironica, ora sarcastica, ora sentimentale, che richiama, in maniera più o meno
esplicita, quello che Heidegger in Essere e Tempo affermava: il bisogno
ontologico di ricercare la natura costitutiva degli oggetti a partire dal
soggetto. Lo stesso Husserl aveva indagato la soggettività in relazione agli
oggetti. Non a caso in una nota finale, che non va sottovalutata, l’autore
rivela che “l’ambientazione di questo testo ha trovato i caratteri nel dato
autobiografico, nel completo coinvolgimento d’autore. La costa di ponente è
quella ligure di Diano Marina, vicino ad Imperia, con una particolare
attenzione alla località di Sant’Anna dove si trova l’Hotel Arc en Ciel, dimora
di passate soste nel periodo dal 2002 al 2014.”
Ciò
che sta a significare questa postilla, estremamente personalistica, permette, a
mio avviso, di ricostruire una lettura che va al di là dell’esperienza
soggettiva di una vacanza sulla costa di ponente. L’aver insistito e
sottolineato, si può dire con nome e cognome, costa ligure, Imperia, Diano
Marina, località Sant’Anna, Hotel Arc en Ciel, periodo dal 2002 al 2014, mira
a spostare l’accento dagli avvenimenti e dalle cose, come, in artiglieria, avviene
con l’uso del falso scopo: inquadro un campanile, ad esempio, ma non sparerò su
di esso, il campanile è semplice punto di riferimento.
Ecco
allora che gli oggetti si materializzano nel soggetto, lo scrittore, il quale
diventa per ciò stesso mezzo importante e tramite di riflessioni e speculazioni
attorno a ciò che la vita impone e oppone. Già nella prima pagina il percorso
sembra ormai tracciato. Ci sono segni evidenti di aspettativa e di novità.
“Il
buio della notte è leggero, impalpabile, atteso ed aperto alla consolazione del
mare immobile.” Il buio rappresenta l’animo dell’autore
che attende risposte da chi, come il mare, rimane apparentemente immobile. Ed è
solo l’inizio. Nel prosieguo il “particulare” continua ad inseguire lo
scrittore come un’ombra: lo slargo, il parcheggio, le case, i corpi
seminudi, gli scalini, la spiaggia, le tazzine, i bicchieri e via dicendo. Il
tutto, poi, impone un viaggio a ritroso nel tempo e costringe a ripassare il
passato e a ripensarlo. “Penso ai tanti viaggi compiuti in passato; a come
il movimento sia stato adeguata necessità di una natura ipercinetica, ma anche
interessata a toccare fisicamente ciò che diciamo altro.”
La
costa di ponente assume quindi, sotto un certo aspetto, il valore e
l’importanza che per Proust ebbe la sua madeleine. Non dimentichiamoci
che in una silloge precedente di poesia Rompianesi ha pubblicato proprio un
volume dal titolo “Metrò Madeleine”.
In
tal modo il viaggio nel passato rappresenta un momento di autoanalisi, essendo
il viaggio, da sempre, un topos della letteratura che serve ad
approfondire non solo se stessi, sibbene il mondo che ci circonda. La
riflessione porta dunque alla conoscenza, riscopre quella parte di noi che non
sempre emerge, chiarifica scelte ed abitudini tanto che ci addentriamo sempre
di più in quell’impalpabile groviglio filosofico necessario per ripartire il
giorno dopo, magari con gli stessi gesti, le stesse volontà, gli stessi errori,
ma più consapevoli.
Sotto
quest’ottica l’introspezione coglie necessariamente ciò che sta più a cuore
all’autore: la filosofia. “Una credenza popolare ritiene che la filosofia
sia disciplina astratta; niente di più lontano dal vero. La filosofia è di una
concretezza assoluta… non solo gli enti, le cose, sono… ma l’essere
stesso, in quanto tale, è.” E per dimostrarlo l’autore fa sì che,
immediatamente, il pensiero divenga oggetto che, momentaneamente, si incarna in
una madre bionda, di una magrezza anoressica, che scende da una vettura
rossa accompagnata da tre bambini tanto identici da sembrare cloni. Più
tardi gli oggetti saranno la bicicletta, i chioschi con pareti rugginose, un
bar, il piccolo market, un complesso alberghiero.
La
realtà, il concreto, l’oggetto: tutti elementi riconducibili ad una filosofia
dell’essere e che diventano altrettanti simboli di un’esistenza meditata: una
specie di correlativo oggettivo montaliano che si traduce in una molteplicità
di slide o fotogrammi su cui posare lo sguardo critico e imparziale,
vista l’estrema soggettività dell’esperienza. “Il cielo terso conduce a
rinnovare le immagini di altri luoghi, rivisitati, forse reinterpretati anche,
come vere sequenze.”
L’insistenza
con la quale Rompianesi propone la visione del paesaggio circostante impone
comunque una meditazione, che ipso facto, diventa confessione. “Confesso…
sì, voglio confessarmi” e nella confessione una preghiera: “Non sappiamo
né il giorno né l’ora… dunque dobbiamo stare pronti, con le lucerne accese.” La fede dell’autore si consolida mentre
prosegue il cammino e “l’attenzione elude la morte; ma quest’ultima non è
che una puntura di spillo, talmente rapida da trasformarsi in sollievo.”
In
questa disanima in cui prevale l’argomento ontologico, cosmologico,
teleologico, si inserisce un elemento da non sottovalutare, ancorché in
secondo piano rispetto al resto: l’attenzione linguistica, dimostrata dal
fatto, ad esempio, di scrivere vólto per indirizzare immediatamente il
lettore ad una giusta ortoepia, o di scrivere spazî, con l’accento
circonflesso, per evidenziarne il plurale, e soprattutto il voler stigmatizzare,
in una specie di diascopia, il vizio tipico italiano di utilizzare vocaboli
stranieri (in prevalenza inglesi) per cui “siamo diventati, da tempo,
vittime felici di un colonialismo linguistico approssimativo e insopportabile.”
Per questo, ironicamente, lo scrittore conclude affermando di voler approfondire
lo studio dell’inglese solo “quando la maggioranza degli inglesi si
impegnerà in una acquisizione approfondita dell’italiano.”
Tanti
sono i momenti di ripensamento, tante sono le occasioni che attraversano la
vita apparentemente oziosa o da spiaggia, come si suol dire, presenti in queste
pagine che offrono al lettore emozioni poetiche e ragionamenti filosofici.
Siamo di fronte ad un lavoro di sintesi in cui la poesia diventa prosa e la
prosa si fa poesia. Ed alla fine, come in una pellicola, le numerose tracce che
l’autore ci propone ci permettono un’analisi del presente, o per lo meno, il
tentativo di analizzare e ripensare l’esistenza in un raffronto confronto con
le immagini e le riflessioni qui esposte.
“Allora
ci sarà, forse, in qualche piccolo anfratto delle nostre definizioni,
categorie, speculazioni, sillogismi, il tenace tempo noetico che, compiendosi,
assolverà il presente per farsi comunione; ci sarà, infine o all’inizio, la
piena coincidenza di essenza e di esistenza.”
E quasi a sviluppare un trait-d’union, come fosse
una legatura musicale, tra la prima ed ultima pagina, in pieno stile e
riconoscimento cinematografico, con una vena sottilmente ironica, ecco apparire
una sagoma umana, un uomo, un amico, sempre più somigliante a Jack Nicholson
(…) ancora più somigliante a Jack Nicholson.
Enea Biumi
venerdì 4 novembre 2022
Emiliano Pedroni, Le tracce rosse, Lampi di Stampa, Vignate, € 14,00
Con un
linguaggio asciutto e diretto Emiliano Pedoni affronta un thriller che
si basa su alcuni presupposti del paranormale e che, a tratti, diviene un vero
e proprio noir. La vicenda racconta di un serial killer
psicopatico che massacra donne per una sua frustrazione personale. La storia, che parte da una visione iniziale
di un ragazzo sensitivo, si fa via via più stringente e coinvolgente per
arrivare nelle pagine finali alla risoluzione del caso.
La ricerca del
mostro, come viene giustamente definito nel romanzo, sarà condotta dalla
detective Collins che si avvale del supporto dello sceriffo Morris ma
soprattutto delle precognizioni di Ethan, il ragazzo che, attraverso improvvise
e in principio non volute visioni, farà riaprire il caso di una fanciulla
scomparsa. Purtroppo nel corso delle indagini si aggiungeranno altre fanciulle
orribilmente trucidate. E gli indizi raccolti, anche attraverso messaggi
inviati tramite una vecchia Remington, non serviranno nell’immediato a stabilire
e scovare il vero criminale. Anzi aiuteranno a sviare le indagini. Il tutto verrà
guidato però da un segno: delle tracce rosse (da qui il titolo) che condurranno
gli inquirenti, alla fine, alla scoperta del colpevole.
Interessante,
oltre il giallo in sé, è la “conduzione binaria”, come l’ha denominata
nella presentazione del libro lo stesso autore. Cioè, quando viene presentato
il killer il capitolo presenta il simbolo dell’omega (Ω),
quando si avviano le indagini la pagina mostrerà il simbolo dell’alfa (α),
quando Ethan ha le visioni il simbolo diventerà quello dello Yin Yang ( ) che, come tutti sanno, rappresenta il
perfetto equilibrio dei poli opposti. Se è facile intuire che omega sta ad
indicare il male e la sua fine mentre l’alfa rappresenta l’inizio del bene e la
sua vittoria, meno agevole potrebbe essere, ad un primo impatto, cogliere il
significato dello Yin Yang. Quali saranno gli opposti presenti nel sensitivo
Ethan? Da una parte abbiamo la visione
del male (la ragazza uccisa) e dall’altra la realtà del male (l’assassino): il
paranormale e il normale. Questi due elementi, uniti, rappresentano a mio
avviso una specie di ossimoro retorico attraverso il quale i protagonisti saranno
in grado di arrivare al bene, cioè alla cattura del colpevole.
La detective
Collins, lo sceriffo Morris, gli amici di Ethan, Mark e Timothy, la famiglia
stessa del ragazzo veggente saranno coinvolti in una ricerca che avrà le
caratteristiche di una contrapposizione inquietante e affannosa volta a frenare
il serial killer che abilmente si nasconde nella contea di Mammos. I
tratti realistici di questa narrazione sono una connotazione positiva e
contribuiscono a creare quell’atmosfera adatta per un giallo che non disdegna
aspetti psicologici e domande esistenziali. Non per nulla l’esergo iniziale ha
un ben preciso indirizzo: l’epitaffio di Sicilo che così sentenzia: “finché
vivi, splendi, non rattristarti di nulla: cosa breve è la vita. Il tempo volge
presto alla sua fine.”
Ecco, il thriller
di Emiliano Pedroni ci porta, nonostante la drammaticità del racconto, allo
splendore della vita. Ci consegna alla vita stessa. L’impressione è quella di
essere inseriti in un sogno. E, sebbene in questo sogno ci sia la presenza del
male, alla fine rimaniamo del tutto sollevati perché il bene sopravanza sul
male. E si respira un’aria del tutto nuova e purificatrice.
Oggi si parla
di metaverso, di realtà virtuale. La lettura, da secoli, ha anticipato questo
mondo e questa moda attuale. Immergersi nelle pagine di un libro significa
abbandonarsi e abbonarsi all’immaginazione, significa lasciarsi andare a
sentimenti ed emozioni che in altri contesti, forse, faremmo difficoltà a
sostenere e a mostrare. E il leggere e – per alcuni – lo scrivere, come
sostiene lo stesso autore, è l’evasione dalla realtà, è lo scrollarsi di dosso i
panni del quotidiano per rivestire, come proponeva Machiavelli, quelli curiali:
è un proseguire oltre, perché, appunto, il tempo volge presto alla fine.
Enea Biumi
martedì 25 ottobre 2022
Anna De Pietri, Nove stelle più una, Macchione Editore, Varese, 2022, € 15,00
“Stella” è il trait
d’union dei dieci racconti della recente pubblicazione di Anna De Pietri.
Ma esiste un altro filo conduttore non tanto nascosto che procede dalle prime
alle ultime pagine. Ed è quello che unisce le storie dei vari personaggi
riproducendo nomi e situazioni che il lettore ha trovato nei racconti
precedenti. In modo tale che ci pare di leggere
un unico romanzo, come se la trama si svolgesse in una specie di spirale in
grado di agganciare un elemento per riposizionarlo altrove. Si è proiettati, in
altre parole, entro una costellazione di avvenimenti tutti legati tra loro, in
primis dalle stelle, in secundis da alcuni personaggi. A ciò va
aggiunto una buona tecnica narrativa, a mio avviso “all’americana” (tanto per
intenderci: Fitzgerald, Hemingway, Kerouac) che derubrica fatti e azioni quasi
sempre borderline e con protagoniste donne, comunque convincentemente
avvolgenti e fotograficamente inquadrati. Anche la descrizione delle varie
figure, protagoniste o no, dei luoghi, dei sentimenti che si intrecciano tra
loro, appare del tutto sicura e decisa tanto che si viene stimolati nel
prosieguo della lettura, o come volgarmente si dice “per vedere come va a
finire”, e, senza nemmeno accorgerci, arriviamo alla fine delle pagine
consapevolmente soddisfatti. L’autrice scandaglia i particolari che
costituiscono l’originalità dei racconti infondendo agli stessi l’autorevolezza
del “verosimile”, ben chiarito nella nota finale in cui sostiene giustamente di
non voler porre nessun limite alla propria fantasia. Le storie infatti si
snodano in modo del tutto naturale e partecipano dei sentimenti comuni a tutti
noi. Anna De Pietri dispone di un repertorio che esplora l’intimo umano
attraversando e perscrutando paure, ansie, gelosie, amori, e via dicendo, che
sono esattamente condizioni legate alla psiche umana in determinate esperienze.
L’impressione che se ne coglie è quella di trovarci di fronte alla vita vissuta
da altre persone ma che, come in uno specchio, riflette in parte o in toto,
ciò che rientra nella nostra sfera emotiva. Ma non solo nostra. Alcuni episodi
appartengono a realtà distanti da noi che si traducono comunque, ipso facto,
in una comprensione e compressione collettiva e corale che, sebbene lontana,
non può non scuoterci e quindi appartenerci. Infatti, protagonisti e
deuteragonisti – semplifico per non essere troppo didascalico – si muovono
sotto un cielo stellato che li avvolge, colti alla ricerca di se stessi. Lo
rivela l’incipit del terzo racconto, “La visita”, in cui l’autrice,
attraverso il pensiero della protagonista, afferma “Guardarsi dall’alto fa
un po’ impressione. Non siamo abituati a vederci da quelle angolazioni che
sfuggono ad ogni specchio”. Ci si perde, allora, ci si sente un po’
smarriti. Ma ci si perde per potersi ritrovare, in noi o negli altri. E lo
smarrimento ci costringe ad indagare, a proseguire il viaggio (non per nulla
proprio il primo episodio si intitola “Il viaggio” ed il viaggio, da sempre, è
un topos della letteratura) anche se le incognite sono tante e i timori
non cessano. La sicurezza sta nelle stelle che ci guardano, ci conducono, ci
rafforzano. Sono un collante nella nostra coscienza e conoscenza. “Non ho la
minima idea di dove sto andando – afferma Fatimah, una bimba che viene
fatta fuggire dalla madre nella speranza di mettere fine alla miseria della sua
esistenza – ma spero che almeno sia un posto sicuro. Mi piacerebbe andare a
scuola e non dover lavorare. Mi piacerebbe giocare quando ne ho voglia. Chissà,
se almeno una di quelle stelle ha sentito la mia voce forse andrà così.” Queste
pagine di Anna De Pietri ci raccontano di noi stessi alle prese del nostro
viaggio – esterno ed interiore – per una maturazione in progress,
attenti a non perderci in futilità, ma costretti ad una riflessione che si fa
vitale e inderogabile. Le stelle sono anche questo. Un momento per calarci in
noi stessi. Un passo verso un miglioramento spirituale. Da farsi però non con
la fronte aggrottata e pensierosa, bensì con estrema leggerezza e naturalezza,
in un gioco letterario costruito con sapienza e abilità, consapevoli che si può
meditare non solo con le lagrime e il rimbrotto, ma anche col sorriso e il
perdono, a seconda dei casi che la vita ci presenta, reali o surreali,
piacevoli o drammatici, affascinanti o apprensivi.
Enea Biumi
venerdì 7 ottobre 2022
Alberto Mori “Dettagli Fuori Campo” (Fara Editore, 2022)
Il dettaglio è innestato nella rapidità fluida dello sguardo che percepisce, registra, comporta le sezioni e le tonalità evidenti nella compostezza della collocazione in spazi adibiti a scenario. Già il primo testo di questo esito di Alberto Mori, poeta e performer dei non luoghi urbani, “Dettagli Fuori Campo”, la poesia che avvia la prima sezione annuncia una versificazione calibrata nella tenuta delle strofe. Culmina aprendosi un varco, l’espediente pronto a raccogliere il minimo, quotidiano, concreto evento: “Avanzando nel ronzio acuto/ il taglio dell’affettato/ deposto disteso/ a rilascio della pinza/ ricopre il foglio”. Alberto Mori scolpisce la realtà togliendo il prevedibile e rendendo nitido il particolare anche periferico ma svelante. Ci sono accorgimenti graficamente incisi sulla pagina a rivelare le fissità inagibili, le distinzioni dei caratteri affioranti dalle luminosità in evento, con “Intermittenza fioca/ d’arancione diluito”. Il minimo accadimento è conforto contestuale a vocazione d’argine per la difesa occorrente, quando l’episodio rischia d’indicare l’eclissi ontologica. La risposta di Mori è contingente, materica, ostinata nella iterazione dei referenti; comporta l’azione dicibile, la risposta provvisoria ma tangibile. Poi, però, qualcosa insinua il dilemma e il segreto; “Nel buio nascente/ appaiono due pianeti/ allineati in segmento cosmico”... dove l’evanescenza tace e allora si dispone una progettualità onerosa, una configurazione evoluta dalla prossimità estensiva, come “Quello che era stato/ oppure poteva essere// Spazio esteso/ Pianura percepita”. E fuori campo continuano a scandirsi i passaggi alle attenzioni, nella seconda sezione del libro, dove gli anfratti tenui sono opposti ritagli alla condensazione condotta oltre i sintagmi diffusi, operanti nel solco del commento fulmineo, intonato sulla prospettiva di un cenno suggestivo all’evento reso tale, composto nel fotogramma: “Corpo per aria sola/ Respiro risacca mare”. Molti gli elementi e i temi della poetica di Mori che qui ritornano e rimarcano la centralità del passaggio o, meglio, della successiva sosta concentrata nella ricezione sensoriale capace di trasmettere sussulti episodici. Le tensioni vitali rimarcano l’ossessiva presenza delle cose che ritornano, della fisicità acquietata nella posizione inerente a ciò che appare. L’apertura indugia su prospettive ritratte ed estrapolate al fine di una evidenziazione concentrata sul dato colto e individuato come inquadratura: “Tempo limite d’orizzonte/ La ripresa in campo lunghissimo/ avanza nel presagio della prima pioggia”.Richiesta che Alberto Mori pone al reale di un contesto colmo di effetti stimolanti energie che il poeta trasforma in indizi linguistici capaci di far emergere la parola esatta; qualcosa allora si rifletterà nell’oltre che si origina dalla calibratura attenta del verso breve.
Andrea Rompianesi
Davide Racca “L’ora blu” (Anterem Edizioni, 2022)
Perché blu l’ora? Perché l’attesa nel frastuono muto degli elementi, della condensazione accumulante effetti percorribili e tardi? Così incespica l’accorrere ai dettagli, ai disadorni passaggi delle travi. Ma poi è ondivaga risposta la permeante postura che incide il solco nella traccia dell’ora. “L’ora blu”, appunto, è il titolo dell’esito poetico di Davide Racca. Le corrispondenze si accumulano in un tentativo linguistico arduo e distinto, materico e abissale. Attonito conduce il mirabile esordio della domanda inesausta, d’accenno e riprova, a desiderio d’intero. E l’intero, per sua natura inalienabile, non può esserci restituito dalla morte, in quanto essa è assenza e l’intero invece richiede ed esige una presenza assoluta...”le dita aperte/ scheggiate/ la morsa, le lunghe stasi/ (e si comincia sempre/ a ricominciare)”. Davide Racca chiede una direzione d’alba, una distrazione dai cardini, gli estremi riproposti in sentenze acquisite, nello iato sospeso, “o un punto qualsiasi/ fuori del mondo”. Attraverso la solidità dei frammenti, il percorso tende al senso, vocazione dell’ortodossia filosofica che non può certo ignorare la tensione all’essere e, quindi, la domanda metafisica (da troppi fronti messa a lato per deformazioni ideologiche). Certo la luce individuata da Racca è “rabbiosa tra i solchi”, imprime sonorità di sinestesia occhieggianti il diradarsi di mutamenti nella peculiarità dei corpi fisici. Così “un brivido sul dorso dell’acqua/ rompe la linea degli argini”; come zone sottratte ai deserti se non per accumulo di sedimenti e rilasci, cedimenti perturbanti in odore di miscele fonetiche essenziali nella verticalità dei versi. “Quando lo spazio si spezza/ e tutto finisce (come tutto/ finisce) nell’eco// ecco/ steli ricrescono...”; l’ora acconsente al blu della sera che inoltra la persistente richiesta in dimora costante e caparbia. Quell’attenzione alla reiterante analisi di partizione in essenza ed esistenza, in possibilità e attualità, continuamente riaffermata e ridisegnata in ulteriori accezioni (un riferimento è, ad esempio, la riflessione di Giorgio Agamben). Davvero, in questa fase, nel lavoro di Racca, è ben visibile il senso del fare poesia e la natura più intima della poesia stessa quale ricerca nel linguaggio. Realtà che abita lo spazio della pagina e coniuga le espressioni significanti. Oltre il dato percepito, l’accumulo sonoro è intarsio nello sforzo scritturale coniugato alla vocazione evocativa che si libera di scorie superflue e seleziona, nella dimensione assertiva, l’intelaiatura minerale. C’è un silenzio di ere, di conduzioni memorabili, di “un tocco di cosa o/ cosa non sai”, attraverso la costante percezione del pensiero. E ci si muove all’interno di uno spazio indefinito del prima o del dopo; in evenienza solitaria e fragile nei risvolti del protrarsi, quando “del corpo della lingua/ non resta che mutamento/ e pietra”. Ma Davide Racca immette nei versi un sibilare accorto, sapiente, composto nella postura dell’osservatore silente che detiene l’opzione di un correlativo prosciugato ma non inerme, capace di tratteggiare in tale esito un imprevisto, riuscito e convincente effetto dove lo stato in luogo è maturo tracciato linguistico; composizione che sembra filtrare elementi e atmosfere quasi fosse avvenuto un precedente passaggio nella prosa di Jean-Philippe Toussaint.
Andrea Rompianesi
mercoledì 5 ottobre 2022
La maestrina del Copacabana e altri racconti, Genesi Editrice, Torino 2021
La maestrina del Copacabana e
altri racconti: quadri di provincia disegnati con
realismo e ironia da Giuliano Mangano.
di
Gianfranco Gavianu
La
rappresentazione realistica, partecipe e a un tempo disincantata, della concreta realtà della nostra regione
costituisce un tratto costante della produzione narrativa di Enea Biumi,
pseudonimo di Giuliano Mangano, artista versatile, prolifico, amante della
musica e del teatro, autore non solo di racconti, ma anche di poesia in lingua
e in dialetto bosino, una produzione
molteplice di cui in questo giornale ho dato altre volte conto.
Per
la casa editrice Genesi di Torino,
nell’aprile dello scorso anno, Biumi ha pubblicato un volume di narrativa dal
titolo La maestrina del Copacabana e altri racconti
(pp.127, €12,50).
Il libro è una raccolta di cinque racconti brevi: oltre a quello che dà il
titolo, ne fanno parte: Bocciofila
Cartabbia, Una corolla di tenebre, Aristide Giovanni Principe Turibbio, Il Windsurf. Evidentemente l’autore ha
voluto conferire un particolare risalto al primo di questi racconti, con cui
non a caso il libro si apre. La vicenda, ambientata in Brianza negli anni
settanta da un fatto effettivamente accaduto ovviamente rielaborato dalla
fantasia dell’autore, si incentra sulla figura di Schilly
una maestrina, il cui nome molto prosaico è Nuccia Aliverti. La giovane
insegna con zelo e con una condotta
irreprensibile in un istituto di suore
il Pio Istituto del Sacro Cuore di Gesù. Stanca di una vita scandita dalla triade casa-scuola-chiesa,
superando le resistenza di una madre oppressiva, Nuccia, confortata dall’amica
di gioventù Corinna, bruscamente decide di cambiare radicalmente vita: chiede
alla Preside un anno sabbatico e inizia a fare l’ entraineuse in un locale
notturno: il Copacabana. Antonio, un vecchio scapolo non certo attraente,
(grassoccio, calvo e zoppo), da tempo innamorato di lei, la incontra nel
locale, le fa delle goffe profferte d’amore ma viene rifiutato risolutamente.
Lo sventurato Antonio, per la frustrazione subita, cova un cupo rancore e si
vendica scrivendo un livido articolo che trasuda di ipocrita moralismo
denunciando la duplice vita di Nuccia – Scilly : insegnante-entraineuse, in
nome dei valori della santità della famiglia, dell’educazione dei giovani…. La
voce narrante è anche personaggio del racconto che suona nel locale dove Scilly
si esibisce ed è portavoce del punto di vista critico e demistificante
dell’autore. Compaiono anche altri personaggi disegnati con attenzione quali suor Arianna, la preside dell’Istituto,
Genni, la cantante del Copacabana, la madre di Nuccia, l’amica Corinna, la maîtresse Dolores che, con la sua lingua ibrida che mescola italiano,
francese, spagnolo, richiama la figura di Madame Pace del pirandelliano Sei personaggi in cerca d’autore: la
dubbia moralità di costei vede nello scandalo che travolge Nuccia un’occasione
per far soldi: un business dice
l’autore. Il mondo che emerge da queste pagine è dominato dall’interesse economico e da una
feroce, soffocante ipocrisia che opprime e determina l’ ambiguità e la
scissione interiore della protagonista. La
trama ha una conclusione aperta che lascio al lettore la curiosità di
scoprire.
Gli
altri racconti ci presentano argomenti, situazioni, personaggi a volte legati
alla vita della nostra provincia apparentemente tranquilla in realtà percorsa
di oscuri drammi, a volte tratti dalla diretta esperienza umana dell’ autore
seppur sapientemente trasfigurata. Di una fosca vicenda d’amore, tramata da
interessi economici e di viscerali legami di sangue che si conclude
tragicamente ci parla la vicenda narrata in Bocciofila
Cartabbia; come una sorta di autobiografia esistenziale e letteraria si
presenta Una corolla di tenebre. Decisamente
complesso, drammatico e percorso da tensioni contrastanti tra ironia e tragedia
è Aristide
Giovanni Principe Turibbio, dove il protagonista, dal nome altisonante che
dà il titolo al racconto, narra la sua catabasi
infernale, la sua tragica discesa verso la morte, la sua angosciosa agonìa, rievocando
a ciglio asciutto, senza compiacimenti sentimentali, i momenti essenziali della
sua vita. Nella prima parte la voce narrante rievoca la giovinezza, gli amori,
i compagni della vita goliardica di provincia: una rassegna di tipi umani
disegnati con un gusto e una sensibilità che rievoca certi racconti di Piero
Chiara, e un celebre film di Fellini: I Vitelloni.
Ne consegue che la scelta di aderire alla lotta partigiana fu per il
protagonista, come per molti giovani della sua generazione, in parte frutto del
caso e non ebbe nulla di eroico o di astrattamente ideologico: la
rappresentazione ad esempio di uno scontro coi nazifascisti è condotta con
distacco ironico, con un punto di vista simile a quello del Fenoglio dei Ventitré giorni della città di Alba o di un Calvino del Sentiero dei nidi di ragno. In questa discrezione, in questo pudore
privo di ostentazione è, d’altra parte riconoscibile, una superiore dignità
etica. Il racconto che conclude il libro, Windsurf,
insiste ancora sull’ipocrisia della vita di provincia, narrando la squallida vicenda di Adelaide che si rassegna a un matrimonio
riparatore dopo aver concepito un figlio con Windsurf, soprannome del giovane,
aitante dongiovanni di cui s’era improvvidamente innamorata.
Giuliano
Mangano ci propone dunque una serie di racconti
che, per l’agilità narrativa, la varietà di tipi umani che li popolano e
per l’ironia disincantata che li percorre sollecitano nel lettore un indubbio “piacere del testo”.
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