Il problema metodologico insito nella stesura di una antologia della poesia contemporanea è molto serio, non si può fare a meno di una idea-guida o di una tematizzazione, generazionale o di poetica o di un gruppo specifico, o di una tematizzazione stilistica. Bene ha fatto il curatore, Fabio Dainotti, ad includere nella sua antologia poeti di tutte le generazioni a prescindere dalla datazione delle opere di esordio e a prescindere dai recinti generazionali. Possiamo dire che l’antologia abbraccia un arco temporale che va dalla fine degli anni settanta ad oggi. L’età della rivoluzione operata dai Novissimi il 1961 e della susseguente neoavanguardia fornisce la linea di demarcazione ante-quem che si dà per scontata, dopo la quale la poesia italiana subisce il fenomeno della dilatazione a dismisura dei numero degli addetti ai lavori e delle opere di poesia. Dagli anni settanta si verifica in Italia e in Europa il fenomeno della caduta del tasso tendenziale di problematicità e dell’inflazione delle proposte poetiche che tendono sempre più a collimare con posizioni di poetica personalistiche, con posiziocentrismi e rivalità tra i piccoli e piccolissimi gruppi di poesia. Accade così che le personalità più influenti, traggono vantaggio da questa gran confusione per consolidare la propria minuscola egemonia. Affiora nella poesia degli ultimi cinquanta anni una de-ideologizzazione delle proposte di poesia derubricate alle esigenze di auto promozione di gruppi o di singole autorialità; la storicizzazione delle proposte di poesia viene così a coincidere con l’auto storicizzazione di singoli autori.
Il criterio guida della antologia sembra essere la individuazione di una frattura radicale avvenuta nella lirica italiana verificatasi intorno agli anni ottanta e novanta del novecento. Verissimo e condivisibile. Una «frattura» dovuta a cambiamenti epocali e alle ripercussioni nella struttura del testo poetico e delle sue stilizzazioni, con conseguente esaurimento del genere lirico e della sovrapposizione e ibridazione tra la lingua letteraria e la lingua di relazione, fenomeno che si è riflesso nella indistinzione tra la prosa e la poesia. Tutti gli autori sembrano scrivere in un linguaggio etero generico. Tutto ciò è verissimo ma ancora troppo generosamente generico. Vengono sì messi nel salvagente dell’oblio gli autori della generazione post-ermetica (Luzi, Caproni, Zanzotto, Giudici, Sereni) e viene fornita una ampia ricognizione tra i poeti non inclusi nelle alti attici della poesia ufficiale, tra i quali è incluso anche chi scrive, Edith Dzieduszycka, Luigi Fontanella, Paolo Ruffilli, Eugenio Lucrezi, Vincenzo Guarracino e altri e sarebbe improprio nominarli tutti. Possiamo però apprezzare il lavoro svolto dal curatore il quale si è trovato a dover rendere conto dell’esplosione di un genere indifferenziato e inflazionato come la poesia «post-lirica» degli ultimi cinque decenni con conseguente difficoltà a tracciare un quadro attendibile della situazione storica. Fabio Dainotti non mette le mani avanti con l’argomento posticcio secondo cui tutta la poesia contemporanea è «postuma», come ha scritto in tempi non recenti Giulio Ferroni, ma tenta di tracciare una cartografia, per quanto imperfetta, della situazione storica attuale, che è sempre preferibile piuttosto che lasciare il tentativo inevaso. Merito non secondario del curatore è aver scelto di non includere gli autori «ufficiali», vuoi per disaffezione, vuoi per discredito verso la poesia maggioritaria, e di essersi sporcato le mani, per così dire, pescando nel mare magnum dei poeti che hanno goduto in questi anni di minore visibilità.
A quasi cinquanta anni dalla apparizione della antologia Il pubblico della poesia del 1975 a cura di Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli, risulta ancora un mistero che cosa sia avvenuto nella poesia italiana degli ultimi cinque lustri; Dainotti si limita a prendere atto che le categorie del post-moderno, della «postumità» della poesia, della poesia «post-montaliana» e della poesia di matrice neosperimentale, sono questioni concluse e sembrano oggi argomenti su cui si potrebbe anche trovare un accordo, ma è che al quadro manca sempre qualcosa di essenziale, mancano i perimetri, le delimitazioni, le ragioni di fondo degli accadimenti; l’unico concetto chiaro e distinto è l’aver individuato il discrimine tra il genere lirico ormai esaurito e il sorgere di una poesia post-lirica. L’ipotesi che guida lo studioso è valida, ma ancora, purtroppo, ondivaga, non perseguita con la determinazione che sarebbe stata necessaria, però, a scriminante delle responsabilità del curatore dobbiamo confessare che ormai è già un miracolo aver delimitato la mappa dei poeti italiani a solo 42 nomi, per completare il quadro sarebbe occorso una gigantesca campionatura della poesia contemporanea e uno studio molto più articolato sugli attori della militanza poetica che nel lavoro di Dainotti non c’è e non ci poteva neanche essere a causa dell’enorme congerie di autori e di testi poetici che galleggiano nel mare esotico del villaggio poetico italiano. Ma Dainotti ci ha provato, a 360 gradi, come dice il nostro Presidente del Consiglio, e a lui va dato atto dell’impegno e delle forze profuse.
Il concetto di poesia che è stata scritta nel novecento come momento lineare ha promosso una forma-poesia nella quale lo spazio e il tempo erano il contenitore dell’io e delle sue vicende private. Oggi è lecito sollevare dubbi e eccezioni a questo concetto e a questa pratica della poiesis. La poesia italiana ha seguito il modello unilineare e cronologico della vita quotidiana, ed è finita dritta nella falsariga del «riconoscibile», nella «rappresentazione» mimetica. Il romanzo ha fruito di una uscita di sicurezza data dai suoi svariati generi e sotto generi: il giallo, il noir, il fantastico, il fantasy, il semi giallo, il quasi fantasy, il gotico, il gotico-fantasy, il giallo-fantasy, il fantasy e basta etc.; la poesia non ha avuto, per ragioni storiche, una altrettanta versatilità di forme e di generi, quindi era più vulnerabile, più esposta, e ne ha pagato le conseguenze.
La poesia del novecento si è trovata di fronte il problema di una «forma-poesia» «riconoscibile» con un linguaggio sempre meno «riconoscibile», con l’«io» posto in un luogo, immobile, e l’«oggetto» posto in un altro luogo, immobile anch’esso; di conseguenza, il discorso lirico si è ridotto ad uno schema, un confronto tra il qui e il là, tra l’io e il suo oggetto, tra l’io e il suo doppio, e il discorso lirico ha assunto una struttura cronologica e lineare. Senza considerare una possibilità che se l’oggetto si sposta, l’io vedrà un altro oggetto che non sarà più l’oggetto dell’attimo precedente; di più, se anche l’io si sposta di un centimetro, vedrà un oggetto nuovo. E così, il discorso lirico o post-lirico si è sviluppato tra queste due postazioni immobili. Un’altra via sarebbe stata in potenza percorribile, con le due posizioni che cambiano il loro luogo nello spazio e nel tempo, come avevano ben intuito Mandel’stam negli anni Dieci e Eliot con The Waste Land del 1922, ma dopo le avanguardie del primo Novecento la forma-poesia è ritornata all’ordine e si è assestata sul modello cronologico e lineare, trascurando il fatto che già Mallarmé aveva distrutto quel modello lineare dimostrando che era una convenzione e null’altro e, come tutte le convenzioni, sarebbe stato preferibile derubricarlo per sondare le possibilità di un’altra e diversa forma-poesia.
La poesia del novecento ha ripiegato su una forma-poesia che prevedeva la stazione immobile dell’io, con l’io al centro del mondo attorno al quale ruota la fenomenologia dell’intrapsichico. È stato il modello vincente che ha imposto i suoi binari: l’io di qua e gli oggetti di là, in un costante star-di-fronte. Questo tipo di impostazione ha condotto la poesia italiana inevitabilmente al pendio elegiaco e alla narrativizzazione privatistica, alla esondazione privatistica del privato. Il rapporto tra l’io ed il suo oggetto si è rivelato un dialogo posizionale, posizionato, convenzionato, da risultato sicuro.
Giorgio Linguaglossa
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