“Mai si raggruma limo su chiodi d’assito/ né in pance
d’alambicchi ombra è tenuta”; eccelso esempio di una magistrale architettura
linguistica, questo distico iniziale fa parte di una poesia di “Arepo”, opera
di Gilberto Isella. Autore di preziose figurazioni letterarie, tra i più
significativi della generazione nata negli anni Quaranta del Novecento, Isella
appare sempre più teso verso un vertice creativo che abbina l’esemplare
costruzione poetica nella meticolosa definizione del significante con la
profondità filosofica della identificazione del particolare nascosto ed
enigmatico nel significato. Il titolo evoca l’elemento compreso in una antica
iscrizione latina in forma di magico quadrato composto dalle parole sator,
arepo, tenet, opera, rotas, capaci di determinare un palindromo. Ma l’autore
non si sofferma su aspetti esoterici, privilegiando l’osservazione problematica
nella sua inquieta dinamicità. Se l’esserci stesso in quanto tale è di per sé
dinamico, secondo l’accezione espressa da Heidegger, l’esserci poetico ancor
più infonde sostanza alle sfumature che acquisiscono toni ontologici. La
materia deve riconvertirsi in forma capace di distinguere le personali
attitudini che sensibilizzano cromie e fenomeni, emblemi e riemersioni,
devozioni in un considerare aligero che scorre. Ma certo se il giallo è
impaziente e non placa, trasferire i tratti inattuali è determinare il segreto
possibile decifrarsi dei sintomi. La malinconia è trascinata dallo scorrere di
tempi ubiqui, lontani dalla nostra capacità di coglierli se non sedotti, arresi
alle discoste spinte vibranti sui bordi dei versi riaffacciati alle possibilità
semantiche e autoriali. Isella ben comprende la necessità di superare,
oltrepassare il significato usuale per svolgere ricognizione più vasta e
adeguata all’ardente pazienza dei poeti. Un fluire incredulo detiene la grazia
della continuazione esposta al bisogno emotivo di quella domanda alla quale la
poesia azzarda la scelta della parola esatta, la folgorazione attimale
dell’indicibile. I versi scolpiscono con la grazia del tratto una finezza
espressiva che colpisce, nella stupita attenzione dell’ascolto. Siamo posti di
fronte ad un esempio poetico di rara presenza nel tracciato di una produzione
contemporanea troppo spesso adagiata in formule scontate e prevedibili. Qui la
sostanza compone le simbologie e le coniugazioni, attraverso un’estensione
lessicale ondulata e rapsodica. Le allitterazioni ricamano un disegno dalla
raffinatezza espressiva oltre il definito, “dove la mente in esilio disvela/ i
suoi segni più sagaci”, come profumi di pino che interrogano le nostre
debolezze inusuali. Non vale forse l’episodio che concentra l’assolo nel
deposto ancoraggio, attraverso sospensione di epitaffi e rigurgiti ad oltranza;
meglio la svista, se mai sedotta, all’apice della configurazione nominale che
sovrasta. E così sai di poter
individuare un’alternanza che, nei rivoli esegetici, comprende una via
percorribile ed esposta alla riconoscibilità delle scansioni. Esistono ed
emergono segnali di ripetute fisicità, rovine e pozzi, mulini ed anfore, sabbie
e fave, sismi e ibis; come non esita a manifestarsi anche l’innesto in una
prosa poetica che arde in umore di contenuta apocalisse. Denotazioni arcaiche
impongono esperite visioni sottoposte all’implacabile e diuturno romitaggio
quando, scrive Isella, “qualcosa peraltro s’inceppa/ nel montaggio vettoriale”.
Significativa l’attenzione all’opera di Piranesi nei temi relativi alle rovine
come elemento di un compiuto architettonico e il labirinto (o carcere) quale
allegoria della condizione umana; proprio l’espressione, così, si attira
l’elegante fioritura di una strofa del poeta capace di concentrare il
sentimento delle cose colte dai sensi nella costruzione demiurgica dei moti
tangibili: “Sul cilindro girante della notte/ concepì una ronda di pulegge/ per
il suo piccolo cerebro/ sovrano”.
Andrea
Rompianesi