mercoledì 28 giugno 2023

Angelo Manitta, La regina di Saba (La Reine de Saba), traduzione francese di Jean Sarraméa, Il Convivio Editore, Castiglione di Sicilia (CT), 2023

 


La storia della Regina di Saba viene narrata in tre libri diversi che rimarcano sostanzialmente un’unica vicenda: l’incontro della Regina con Re Salomone. Sia nella Bibbia, che nel Corano e nel Kebra Nagast, al leitmotiv dell’ammirazione della Regina per Re Salomone, si aggiungono la smisurata ricchezza del regno di Saba donata al Re e velatamente, per il Corano e la Bibbia, esplicitamente per il Kebra Nagast, l’amore tra i due regnanti. Gli studiosi hanno tentato di storicizzare l’avvenimento, ma rimangono dubbi e la distanza fra religione, leggenda e storia sembra non essere colmata.

Tuttavia, ciò che non riesce agli studiosi viene raggiunto dai versi di Angelo Manitta che, in un unicum coinvolgente, attraversa storia, leggenda, religione, offrendoci un ritratto che va ben al di là del dato contingente per trasformarsi in qualcosa di immateriale, universale e senza tempo. La poesia ha questa capacità illuminante e trasformatrice, sa uscire dal marcescibile e donarci l’ebbrezza dell’assoluto.

In questo contesto il lettore affronta lo stesso viaggio regale della regina di Saba e si ritrova immerso in un mondo favoloso, al limite della magia e del surreale. È, tale, la funzione dell’incipit che ci introduce in una meravigliosa luminosità (“Sgranano grappoli di luce le alcansie / lanciate nell’aria da rotondi universi”) e il deserto diviene motivo di curiosità e di racconti ancestrali dove si misurano donne impaurite dai serpenti e bimbi incuriositi, dove le carovane attraversano esotiche dune e la sensualità si scontra con demoni tentatori. Siamo davanti ad una sorta di prefazione che serve ad introdurci nel munifico mondo d’una regina, che non solo offre al re stupende e innominabili ricchezze, non solo fa richiesta di strani e variegati quesiti, come se volesse testare la sapienza di Salomone, ma si concede in toto ad un amore sublime, materiale e spirituale allo stesso tempo.

Ecco allora che lo scandire delle azioni segnano il destino degli amanti e le voci che si susseguono hanno la complicità e la varietà di un andare musicale che accompagna gesti e pensieri. “Le mie parole volano in eccelsi pinnacoli / e lì restano appiccicate in muti frontoni”. Ma non esistono solo parole “che inseguono parole”. Esiste l’incombenza del viaggio, l’anelito dell’incontro. La regina è circondata dal desiderio, immersa in “tentazioni di stelle / flagellate dai tramonti (…) giochi d’amore / che risvegliano fantasie di Eros nella bellezza / d’un maschio, sesso innocente di piaceri.” Però il cammino sembra incedere lento, mentre “scie di carovane (…) attraversano la pianura, solcano / il deserto”. E l’aspettazione diventa bramosia d’amore. “Il sangue giovanile /delle sue passioni scorre in fantasticherie / erotiche d’un giovane re che la violenti”.

La distanza geografica non si riduce ancora. Si fa sentire nell’animo. Si traduce in similitudini evanescenti come sono evanescenti i sogni e i desideri. “La strada è lunga, gli argini indefiniti” e non è sufficiente l’oro di Ofir o le tazze di smalto o i tavoli d’argento. La regina sembra impaziente, è impaziente: “spinge con gli occhi i saturi cammelli”, sebbene nel frattempo “L’ansia dell’alba si è spenta nell’ombra / di un’oasi.” E finalmente si annuncia lo sposo, in tutta la sua regalità di “nordico re”, nella considerazione amorosa, nella dolcezza di una fantasia avveratasi nel momento in cui “porge la mano ai datteri che pendono / dalla bocca di una bianca imperatrice innamorata”.

L’incontro, a questo punto, palesa non solo la gioia rasserenatrice della regina ma l’entusiasmo di un’intera popolazione, che si vede come liberata da un incubo. “Mormora il passante tra le viuzze cupe, / borbottano le voci entro le case buie. / Le maghe agli angoli fanno sortilegi, // le puttane aprono le gambe agli avventori, / ignari dei turgidi sessi abominevoli. / In filari, le porte, chiuse con spranghe / di legno, ondeggiano al venticello delle colline, // e foreste di cedri, piantate sulle strade, / come scheletri di abeti sognano ogni notte / giochi d’amore e coppe di vino / innalzate al cielo per essere bevute.”

È facile notare, ora, che il seguito della regina (e ormai anche del re) non è costituito solo da uomini, servi e liberi allo stesso tempo. Il contorno che riempie lo spirito degli amanti è composto pure dalla natura che segue, come in un tripudio magico, l’unione dei due protagonisti.

Dapprima la regina pone quesiti a Salomone che risponde in maniera saggia e perfetta. “Gli occhi si incrociano in una sfida di sapienza: / enigmi proposti contro enigmi sciolti”. In un secondo momento, abbandonate domande e sentenze, l’amore tra i due raggiunge il suo acme. Amore sensuale e amore spirituale si intrecciano intersecandosi senza tregua. La descrizione che ne sorte ha un che di sublime. Non c’è volgarità, sebbene le parole mostrino tutta la carnalità dell’essere umano. Ciò che si sottolinea è la felicità dei corpi e dell’animo: è la vita stessa che dona e si abbandona in un viluppo di estremo edonismo, nel pieno piacere di ricevere ed elargire vicendevolmente i propri corpi e la propria anima.

Il paragone col “Cantico dei Cantici”, attribuito come si sa al re Salomone, viene, a questo punto, spontaneo. Sebbene, a mio avviso, al testo di Manitta non posso ascrivere valori simbolici bensì filosofici. C’è infatti un’iterazione di concetti che trascendono la semplice metafora. I termini “ricchezza”, “onestà”, “felicità”, “bellezza” sono ripetuti, nel susseguissi delle quartine, ben quattro volte ciascuno e all’inizio di ogni quartina, dando risalto e valore a quello che di più prezioso l’uomo possiede. Qui il poeta sembra voler uscire dalla narrazione e farci riflettere anche sull’attualità. Alla fine, se è vero che la ricchezza è stata un fattore intrinseco alla visita della regina di Saba, è pur vero che non è sufficiente, così come non sono sufficienti la bellezza o la stessa onestà. È necessario amalgamare il tutto perché solo in questo modo “la saggezza dell’uomo si misura nel vivere / distaccati dal mondo e dalle emozioni” e “la saggezza d’una donna innamorata sta / nel capire che tutto è finito”. Vale a dire è necessario possedere la capacità di andare oltre la passione. Sembra quasi di ascoltare la filosofia di Epicuro in questi ultimi versi che terminano con una descrizione disincantata, e liricamente avvolgente, della natura.

“Canta / il vento una canzone triste alla partenza // della carovana, piangono i cammelli e i cammellieri, / piange il suo cuore nell’ultimo sospiro. / L’orizzonte che accoglie umidi albori / spegne nell’aria emozioni d’amore”.

 

Enea Biumi

martedì 20 giugno 2023

Enea Biumi, Sfulcìtt - Inganni, Lupi Editore 2022



Una raccolta in vernacolo, fatta di “riflessioni tra dubbi, asserzioni, sogni”

Questa volta Enea Biumi, pseudonimo di Giuliano Mangano, scrittore, poeta, intellettuale varesino, ci regala “Sfulcìtt”, che significa “inganni”: un’intensa raccolta in vernacolo, fatta di “riflessioni tra dubbi, asserzioni, sogni”, edita da Lupi editore nel 2022. Parte proprio da una libera traduzione del “De Rerum Natura” lucreziano:

La vita l’è ‘na nòcc de tribuléri

e la cùur cumpàgn d’una saéta

La vita è una notte di affanni

e corre come una saetta

Si tratta di una raccolta molto esistenziale, che fa riferimento alla vita vera, all’erlebnis, con espressioni che solo il dialetto può rendere, sia perché era - e dico “era” - una lingua più vicina al popolo, alla saggezza popolare, e non alla sapienza degli intellettuali, sia perché la vita cui si riferisce era più semplice, più genuina. Peccato che il dialetto si sia perso tra le giovani generazioni. Nel Sud è un po’ diverso, ancora si respira il fascino delle tradizioni popolari, della lingua. Ogni paese ha una lingua diversa, tradizioni diverse. Il dialetto reca con sé un patrimonio vastissimo culturale orale, che rischia l’estinzione. Quest’assaggio di Enea ce ne può rendere un minimo di sapore. E sapienza deriva da sapore: dà l’idea di mangiare. Ricordate la metafora del profeta che divora i rotoli della Torah.

Dìsan che cunt un bòff de fantasia

Domenedìu l’avrìa fa ul mund

giüst in pòcch tèmp

Dicono che con un soffio di fantasia

Domineddio avrebbe creato il mondo

solo in poco tempo

Si tratta di uno di quei detti che la sapienza popolare ci offre dal suo scrigno arcano di tesori, tesori che rimandano a quelle idee archetipiche dell’inconscio collettivo junghiano. Dio, come diceva Eraclito, è un fanciullino che gioca ai dadi. È l’oltreuomo per eccellenza di nietzschiana memoria. Cristo è l’oltreuomo, colui che ha effettuato tutte le metamorfosi (cammello, leone, bambino).

L’uomo è:

Anima biòta

tra bistùrni e stranzénn

slisàda in un cièl a tacùnn

Anima nuda

fra maldicenze e malocchio

consunta in un cielo a rattoppi

Notate come il vernacolo tende sempre alla rima, alla musicalità, al ritmo, all’eufonia. Il dialetto è canzone, è armonia, è intuizione dello slancio vitale bergsoniano che si tuffa nel tempo, il tempo dell’anima. Il mondo contadino è fatto di credenze, di malocchi e di fatture, di quelle che noi chiamiamo superstizioni, come se appartenessero agli uomini primitivi: ma in effetti - diciamoci la verità! - anche noi ci crediamo. L’uomo contemporaneo crede ai maghi più che mai, perché l’uomo stesso è impastato di fantasia, e di magia. La vita è sogno, come dicono molti poeti e scrittori.

Leggere Enea è sempre bello, tanto più in questi versi, così stringenti, attuali, e sentiti.

 

Vincenzo Capodiferro

 

(tratto dal blog "Insubria Critica")

martedì 2 maggio 2023

Prospero Antonio Cascini – Prospero Valerio Cascini, Lucanità saracena tra poesia e fotografia, Monetti Editore, 2022

 


 

La terra in cui si nasce è come una madre. Ce lo insegna il Foscolo in quel prezioso sonetto che inizia con “né più mai toccherò le sacre sponde”.  Ed oltre ad essere madre è anche sacra. Questi due termini di maternità e sacralità ben si addicono al volume “Lucanità saracena” di Prospero Antonio Cascini e Prospero Valerio Cascini. Non si tratta, notate bene, di una semplice e scontata linea encomiastica, come di solito avviene nella descrizione e rievocazione di un passato felice in un luogo idilliaco, soprattutto là dove si innesca il vernacolo o il vissuto in città lontane da quella natia. Si tratta bensì di un ritratto, amorevole certo ma non sdolcinato, in fotografie e poesie di Castelsaraceno. La responsabilità dell’impresa è dovuta a due cugini, Prospero Antonio Cascini e Prospero Valerio Cascini che si sono impegnati a raffigurare una civiltà antica proiettata nel futuro, una civiltà fatta di bellezza e tradizione, di passione e di memoria, di realtà e poesia. D’altra parte i due autori non sono nuovi ad operazioni di tal genere. L’uno, Prospero Antonio, ha nel proprio curriculum volumi e premi di poesia, l’altro, Valerio Prospero, vanta raccolte in vernacolo premiate e celebrate. Entrambi i poeti hanno la capacità di saper intrattenere il lettore e condurlo ad emozioni e riflessioni attraverso una versificazione che non si avvale di orpelli retorici ma si aiuta di icasticità e sensibilità. Un piccolo esempio è la lirica “La lucanità saracena” di Prospero Antonio. Notate il suo incipit accattivante:

“Dormirci sopra

in un anfratto innevato

tra un cirro argentato

e un bucaneve imbalsamato”

La lirica poi prosegue nell’evocazione amorevole e sincera del suo Paese dove “pendono nelle toppe le grosse chiavi / dei palazzi antichi”, dove “è il sogno di ognuno / che lascia il segno… / sul proprio selciato”.

Non meno incisiva è la lirica di Valerio Prospero, tutta legata ai suoni dialettali che sono un segno di ancestralità e di passione e che rievocano momenti topici della vita a Castelsaraceno (dalle feste religiose, come il Natale, ai gesti quotidiani come la compra vendita al mercato, o a figure tipiche del posto come commà ‘Ndumeta o Filice u Sinisaro). Nulla, come in precedenza sottolineato, di regionalismo encomiastico, ma momenti di vera ed autentica poesia esaltati dalla musicalità di un patois lucano saraceno, come ben delineato in questa lirica dal titolo “Puhisia” (Poesia)

“Fammila na puhisia e ch’ t’ costa.

Parole ‘mbastate ca parole a bella posta.

Ca nu sbendano a l’aria pi fa sputa,

ch’arrivano d’rett’ addun’ so’ binut’.

Rammila na puhisia

a voglio tene ‘ndu portafoglio

cum’ fosse a zita.

Parole ‘mbastate cu parole

pi tutt’ a vita.”

(Fammela una poesia e cosa ti costa. / Parole impastate con parole a bella posta, / che non siano insulse tanto per parlare / ma che arrivino dritto al cuore che le fece andare. / Dammela una poesia, / la voglio tenere nel portafogli / come una sposa. / Parole impastate con parole / per tutta la vita.)

 

 

Enea Biumi

lunedì 1 maggio 2023

Gianfranco Galante, Stati d’animo (e complici emozioni), Scriptores, Varese, 2023


 


    Con questa nuova raccolta di poesie dal significativo titolo “Stati d’animo” l’Autore prosegue quel percorso lirico intrapreso tanti anni fa e che ha prodotto sillogi quali “Di tal bellezza” o “Il pensiero soffia ancora”. Siamo dunque di fronte ad una rielaborazione interiore che non ha interruzioni di tempo ma senza soluzione di continuità offre al lettore le più varie impressioni di un viaggio tutto spirituale, originale ed intellettivo. In effetti, alcuni momenti di materialità sono presenti nel testo, ma si accompagnano sempre a riflessioni o ad emozioni (come sta scritto nel sottotitolo) che appaiono come complici perché seducono e affascinano.

    Lo stile, o come s’usa in certi casi dire, la penna è la stessa, ma cambia la prospettiva, un po’ per l’età (Galante ha iniziato la sua scrittura poetica in età giovanile - 1988) un po’ per le nuove esperienze che subentrano e spesso mutano animo e sentimenti. Ça va sans dire che la capacità esaminatrice dell’Autore si fa più raffinata e meticolosa. Il metro, rimanendo sempre sul cantabile dolce, ha una sua struttura rigorosa né si abbassa a compromessi accattivanti, mentre il contenuto si eleva a decifrazioni per nulla usuali o scontate.

“Sul mare d’ottobre

l’onda frange a prua

e invita il pensiero

a pace interiore.

Galleggia qui il senso,

cullato e graziato

con fare gentile

sull’onda del mare”

    In tal modo la natura assurge a protagonista e si allinea a vicende personali squarciando quel velo che a volte un Autore pone tra sé e il lettore ed identificando ipso facto quegli stati d’animo che si abbinano, verso dopo verso, in un alternarsi di meditazioni ed emozioni che calamitano su di sé l’attenzione e la commozione. Si tratta in fondo della vita, in ogni suo aspetto in ogni suo fondamento. Là dove l’unicità impone la sua comprensione per rendere più visibile ciò che ci circonda, come un drone che si innalza alto su di noi per filmare le cose e renderci più partecipi della bellezza e della fortuna di ciò che ci è dato.

“Stasera respiro poesia;

il giorno depone,

il sole sui clivi

illumina al rosso,

allunga le ombre

e trafigge il mio cuore”

    Se poi si desidera un approfondimento maggiore, si può constatare che un elemento prevale su tutto: ed è l’amore, in ogni sua forma (fraterno, amicale, matrimoniale). Un amore mai banalizzato ma nobilitato, un amore di cui soprattutto al giorno d’oggi se ne sente la mancanza, un amore trascendente la pura corporeità.

“C’è un amore che non c’è

Ma che vive dentro me;

c’è un cuor che so dov’è

e che sa che amore è”

 

Enea Biumi

 

 

 

 


sabato 18 marzo 2023

Adelio Fusé “Mosaico del viandante” (Book Editore, 2023)


 

C’è molto di concreto a cui si può credere già nell’apertura: lo sgocciolio, la pendola, il cartello, i chiodi, dove i dettagli emergono esprimenti; impongono l’ammiccamento riconoscibile adatto a farsi viatico all’insorgere di un tempo quale unità estatica; inoltre “placido e verticale si soddisfa/ il vostro cielomare”. E’ “Mosaico del viandante”, esito testuale di Adelio Fusé, a giudizio di chi scrive, una delle voci più significative della poesia italiana contemporanea definibile “di ricerca”. Qui s’intende sviluppare un diario in seconda persona singolare, dove però l’io e il tu sono profondamente intrecciati in un connubio che esplora in atto il filo conduttore temporale attraverso osservazioni del presente e recuperi dal passato in una sequenza cronologica sovvertita che annulla le distanze e colma gli iati. Fusé riesce a costruire sulla pagina composizioni nelle quali la solidità e l’efficacia profonda delle strofe e dei versi offrono peculiari opzioni imprevedibili nella sapiente tenuta della tempistica stessa di versificazione, quasi una partitura complessa capace di avvistamenti evocativi e stratificazioni analitiche, “il rito di una sola volta/ la sua custode/ e nel segreto che ti rimane/ ti attardi”; quasi un’epoca di echi che si propaga, un effetto di variazioni che si distinguono in cromatiche ed acustiche, una determinazione che include il coinvolgimento di luoghi che dimensionano misurazioni emotive e pertinenze dialettiche, incisioni occasionali ed episodi reclusi, attinenze all’uscita dagli svaghi nel ripristino lucido di un sentire sempre ubiquo: “ti riacciuffi a vent’anni con chi tu sai/ in una specie di notte perno/ da Montmartre planando sopra le luci/ di un cielo capovolto:/ il futuro emanava bagliori/ di sicura veggenza”. L’attimo recuperato dall’autore è evento reinterpretato alla luce delle vivificazioni frammentate e conduce verso l’esprimibile continuo della curva, figura appagante lo sviluppo appartato della direzione. Nella traiettoria dei versi non si esclude il possibile avvistamento dell’archè dei presocratici, il principio che determina l’individuazione di un’origine qui non dichiaratamente ammessa ma incombente nella stessa vocazione insita nel rinnovo dei moti, nel tracciato disegnato dalle vibrazioni dei termini. Adelio Fusé accosta la sensibilità del quesito alla fragilità dell’apparenza, tenendo costante il movimento o mutamento all’indirizzo del punto di domanda, quando la persistente   preparazione del segno comunica, con straordinaria perizia, la porosità consonantica della tessitura: “eco di conchiglia che si propaga/ condotto che non tace e tracima”. C’è un varco accolto che periodizza l’esito possibile, nel portendere un itinerario conoscitivo tale da dirsi anabasi per le molte implicazioni che sanno però sempre, nella tecnica dell’autore, darsi efficaci episodi letterali di una qualità dinamica sul piano che costruisce il rapporto costante di significante/ significato. Il mosaico incide, nella vocazione culturale dell’autore, quasi potesse trasmettere una forte sensazione di anelito all’incontro, all’avvistamento che è bisogno, medicamento per le ferite del vagare. Si percepiscono spazi aperti e dimensioni fisiche tra i versi, tentativi adulti di condensare la risposta interpretativa all’insinuarsi ardente delle assuefazioni. Ma anche cantieri e luoghi urbani determinano una topografia del percepibile: “concentra vita arruffata il parcheggio h 24/ e il maratoneta delle ere lì s’infiltra”; la mossa del viandante diventa allora voce di narrazione, distribuzione di accenni che praticano storie, e storie di elementi che si fanno profili. Sostanza, qualità, quantità, relazione, luogo, tempo, stare, avere, agire, patire...sembrano cogliersi tutte, le categorie aristoteliche, tra le vicissitudini dei versi, nell’afflato conoscitivo che li anima e che li rende via via più dicibili e narranti. Gli eventi collettivi drammatici si confrontano con i ricordi personali lieti in un intreccio temporale che si fa mite e catartico; sospende il giudizio intonando una tonalità piana, evocativa dove “là nel punto d’immissione otterrai/ il crocevia delle correnti”. Il viandante è tale in sintonia con un tempo interpretabile, e a tutto ciò alludono i riferimenti a Machado, Eliot, Saramago; nella costante attenzione che libera dalla morte, evolve verso la predisposizione all’ascolto mimetico, all’astrazione filtrante. Adelio Fusé rimuove le scorie del dettato statico, le rinnova e depura in un procedere interrogativo e pensoso che determina l’avvio del meccanismo linguistico, tessendo i collegamenti grafici di una scrittura che “aspiri alla meraviglia/ che sia nostalgia/ a incorrotte avvisaglie”.

 

                                                      Andrea Rompianesi                                   

domenica 12 marzo 2023

Laura Caccia “La terza pagina” - Book Editore, 2023


Possiamo osare scrivere di felicità? Solo parlando dal limite, forse, dalla frontiera. Allora dovrà costituirsi lo spazio della pagina; dove si compiono i riti inesausti di strappo e sedimentazione, fecondazione e ferita. Dove il pensiero poetante insorge, ponendo la radicalità del tracciato e del verso. Parti del foglio, seduzione binaria al cospetto degli elementi. Un avvio che apre a “La terza pagina”, opera poetica di Laura Caccia, esemplare esito testuale che propone un’architettura del verso davvero preziosa. La scrittura qui osa tendere alle radici lessicali, costruendo una figurazione sapiente di rara maestria tecnica. Ogni singolo esito scritturale coniuga una prima parte costituita da una versificazione per lo più in due strofe brevi, a cui fa seguito un passo che potremmo definire in prosa poetica, sviluppato in una formula orizzontale che utilizza l’interpunzione dello slash nei casi in cui è invece la prima parte a comporre un andamento prosastico. Laura Caccia evoca gli esseri felici descritti da Maria Zambrano, coloro che sanno superare i contrasti, le antinomie tra ragione e passione; sapendo che proprio la Zambrano si avvaleva di categorie specificamente agostiniane, come bene osservava, a suo tempo, Giuseppina Rando. Si cerca una terza pagina, allora, assente ma intuibile, perfino necessaria. E i tralci diventano versi, accenni di prologo come antivoce, contatto in bilico sul tempo, resti di un’epoca nell’avvolgente brusìo che si fa esodo, traccia, quasi equivoco, ma di una potenzialità evocativa aperta all’oltre. Diaspora è il passato, “fino a dove la parola/ era caos che non ha finito di/ scrivere il proprio/ nome né provare a voltarsi/ a specchio ustorio”; debilitano allora gli esterni “soprusi di senso”, atteggiano alla interposta persona, verso una puntualità ricevibile di cura. E la cura, per Laura Caccia, si trasforma in definizione strutturale della composizione nel suo proporre l’iniziale verticalismo dei versi innestati nella base a tessitura orizzontale, epicentro di condensazione episodica. I sussurri di vento, le tramature di luce sono tante e tali da portare dove “a metà di dissensi antisensi/ alla deriva ad un passo dal mondo/ si esiliano i nomi/ noi esiliati per primi/ eppure un nome non mente/ tiene a mente il nulla la luce”. La scrittura si fa viatico dentro la corposità di elementi e frammenti, tonalità e ricognizioni, ingorghi e braci, solchi e fondali. Le pensose articolazioni dei fonemi concedono un controcanto dicibile e avvolgente, dove il gesto rimanda alla dicitura capace di esplicitare nitidamente la parola esatta. Sembra di cogliere eco della voce di Friedrich Creuzer quando affermava che la natura parla all’uomo attraverso i segni, tali da essere percepibili solo da quanti li conoscono. Esprimendo la necessità, quindi, d’individuare quel codice profondo che concede l’opzione del passo, l’intuizione del tracciato. Ma avvalorando anche le inestinguibili fragilità delle percezioni che declinano l’usurante passività delle mancanze. Davvero qui la pagina è sciame; conduce alla possibile verifica di un itinerario esperto che “precipita dove manca/ la voce in grembo ancora”, e l’episodio costruisce l’avanzata delle ipotesi, l’irrimediabile esitazione di fronte alla conduzione del margine, della nota, della posizione acquisita dalla difesa speculativa verso l’evidenza di un concettualismo materico che veicola il pensiero. E il pensiero, nell’opera di Laura Caccia, si fa poesia che abita la pagina, quella terza, forse, invocata, cercata, esposta alle ferite, diurna e notturna allo stesso tempo, episodica e globale, condotta e sospesa, vulnerabile e intatta, esaustiva e incompiuta, “un malcelato amore/ quasi una leggerezza irrisolta”; i rischi esondano, le domande intensificano con insistenza la loro prestanza, accudiscono il timore e accendono l’indirizzo dello sguardo e dell’ascolto, improvvisano rimandi e tentazioni, stimoli che sembrano affrettarsi verso una meta, “raccogliere questo suono inavvertito che si tuffa a precipizio”; tutto assume una pratica ancestrale attraverso l’osservazione del dettaglio, del particolare che s’innesta nel dedalo del contingente, poiché l’evento è il farsi della poesia nella sua scansione, dove “il foglio ci somiglia” come l’abluzione artata ma cedevole nell’insonne turbamento, oltre le fedeltà abrasive, nell’inattesa rifrazione insaputa, nelle feste feriali, nelle seduzioni innocenti, in quella terza pagina ad esito dialettico che risuona perché l’insieme diviene poesia e la poesia, come scriveva Novalis, è il reale, il reale veramente assoluto. Quanto più poetico, tanto più vero.

                                              Andrea Rompianesi


martedì 14 febbraio 2023

Claudio Bossi, Il picasass sopravvissuto al Titanic: la storia di Emilio Portaluppi, Margaretha Frölicher-Stehli: Germignaga e il Titanic, Macchione Editore, Varese, 2021

   

Ho insegnato Storia per una trentina d’anni. So cosa significa, sia come docente che come studente, la noiosa ripetizione di date ed avvenimenti. Possedere, invece, tra le mani documenti e testimonianze reali porta sia l’allievo che l’insegnante a recuperare passione e interesse, soprattutto quando questi attestati repertano situazioni significative e di rilievo.  È il caso di questi due preziosi volumetti di Claudio Bossi dedicati all’approfondimento di vicende e personaggi legati all’affondamento del Titanic.

Non si tratta, come ben specifica l’autore, di romanzo e pura invenzione. Ma di ricerche sul campo, in archivi, in colloqui coi superstiti o con i loro parenti, in registri, talvolta nascosti talvolta apparentemente insignificanti, e tuttavia fonti di inequivocabile valore. In tal modo il lavoro risultante è un preciso identikit di persone, avvenimenti, oggetti ruotanti attorno a ciò che fu nell’immaginario collettivo del tempo la grande e inimitabile operazione Titanic.

L’autore ci confessa di essersi interessato ed innamorato fin da ragazzo al mistero di questo mastodontico, impressionante e, per i contemporanei, inaffondabile macchinario. Da qui la sua curiosità confluita nella ricerca storica che ha contribuito a fare di Claudio Bossi il massimo esperto in materia. Non per nulla lo stesso autore è consulente presso Raistoria, il che ci induce a valorizzare il suo impegno e la sua credibilità, nonché la sua esperienza nella ricerca al contributo di verità su ciò che esiste a proposito del Titanic.

Ma non è tutto.

Infatti, attorno alle vicende del Titanic, Claudio Bossi costruisce la storia di quegli anni (la nave colpì l’iceberg che l’affondò nella notte tra il 14 e 15 aprile del 1912). Anni in cui tutto appariva proiettato verso un futuro di felicità e di benessere, anni cosiddetti della belle époque, fulgida stagione di divertimenti e di scoperte inaudite, ricca di nuovi monumenti eretti per il benessere della società (uno di questi, appunti, fu il Titanic), anni in cui l’orrore della guerra era lontano, inesistente, sebbene gli egoismi nazionalistici e il costante riarmo ne facessero prevedere l’incipit imminente. Allo stesso modo il racconto di quegli avvenimenti non si ferma ad esaminare solo le circostanze esterne, bensì analizza la società del tempo, la rigida divisione in classi sociali, ad esempio (prima, seconda, terza classe), la consapevolezza di una svolta e di un procedere tecnico capace di rivoluzionare il futuro.

In questo lavoro di ricognizione e di autenticazione, l’autore è ben consapevole che non può giudicare con gli occhi del terzo millennio. E ce lo fa sapere. Ecco un altro pregio dello storico. La capacità di sottrarsi all’oggi per immergersi completamente nell’ieri, e nei preziosi documenti che ha sotto mano, perché è solo nell’ieri, e nelle pagine del tempo ritrovate, che può scaturire un giudizio neutrale e una visione obiettiva.

Inoltre, insieme con la grande storia l’autore ci racconta la micro storia: quella locale, quella di uomini e donne che per fortunata coincidenza riuscirono a salvarsi dal naufragio per poi narrare, da testimoni vivi, l’accaduto di quelle tragiche ore. Ecco allora che nascono i racconti del picasass, Emilio Portaluppi, di Arcisate, miracolosamente scampato al disastro e di Margaretha Frölicher-Stehli, la cui descrizione si amplia in una visione storica sociale di un mondo da una parte povero, poco considerato e desideroso di ascesa sociale, dall’altra ricco, industriale e all’apice.

Quello che qui mi preme mettere in luce non sono tanto gli eventi che hanno caratterizzato i due personaggi quanto la circostanzialità delle notizie che Claudio Bossi ci fornisce intorno a loro. Del picasass ci fa sapere il travaglio degli scalpellini della Valceresio, il loro desiderio di emigrare, la loro volontà di cambiamento; della signora Margaretha l’autore ricostruisce la genealogia sia individuale sia industriale. Conoscenze, queste, che si aggiungono a quelle già riportate sulla grande storia.

Pagina dopo pagina, quindi, noi veniamo informati di un mondo lontano un secolo, ma che sopravvive grazie al lavoro di storico, alla ricerca documentale, all’analisi e alla sintesi di incontri personali e di interviste mirate.

Per chi volesse saperne di più consiglio il sito web www.titanicdiclaudiobossi.com, in cui si possono trovare ulteriori informazioni riguardanti quel fenomeno di ingegneria (ma fu davvero così?) che rappresentò il Titanic alla soglia del novecento.

 

Enea Biumi


 

L'ANIMA nella Poesia di Prospero Cascini fotografata attraverso la PROPRIA, a cura di Salvatore Monetti

  La poesia, in molte delle sue forme, è molto più di un semplice esercizio linguistico o di un passatempo estetico. Essa è da meditazione. ...