L’attesa è
proposta all’ineludibile fonte che si abbevera di desiderio. Un desiderio
mutante, multiplo, estenuante, assiso alla richiesta riposta verso l’appartenenza
(qualcuno avrebbe detto) alla figura dell’angelo, della concessione altra che
già precede la domanda. Come muta allora la condizione che non è solo movimento
nello spazio ma anche, e in particolar modo, mutamento di stato, travaso di
forma contenente una materia solcata da interpretare. E’ l’edito di poesia “Gli
spostamenti del desiderio”. L’autrice, Raffaela Fazio, tenta forse di
avvicinare due punti lontani, due stati di coscienza, due vissuti, attraverso
la calibratura di ciò che diciamo forza desiderante che in quanto tale è
energia creativa, volontà progettuale. Già dai versi brevi, delicati, misurati
emerge una sensibilità vibrante di tipo spirituale, all’interno di una proposta
che spontaneamente collega impulsi sapienziali propri di una tendenza
multiculturale in dialogo mai sincretista ma più esposta alla comprensione
della realtà multiforme come mosaico policromo. E’ diretto e limpido lo sguardo
di Raffaela Fazio; la sua architettura testuale è volutamente lineare, votata
ad una espressività dicibile nella conduzione del sentire in natura e luce:
“luce che filtra/ come sogno ripetuto// pare si spezzi/ e invece si rivela”.
C’è speranza anche nel dolore, nel lutto, tema della prima sezione, perché la
parola insorge, chiede un riscatto dall’abisso, dalla perdita terrena, propone
il racconto che accompagna quale fosse uno stato nomade (così come accenna per
certi aspetti la citazione da Proust). Ma il dono si concentra in una
musicalità rapita che sembra coinvolgere l’armonia di una voce in lettura o in
preghiera. La temporalità si fa metro di attenzione, quella prudente ma sincera
che percepisce la valenza ontologica dei dettagli, dei frammenti rivestiti di
una identità che li fa segnali nell’acutizzazione esperita dei travagli. La
misura docile è radicata nella ritmica prestanza di una metrica che, in punti
reiterati, si distingue per reazione in una visibilità di riscatto morale. Non
più lo storico aut-aut di kierkegaardiana memoria, ma una sintesi raggiunta di
estetico ed etico che apre al religioso nella sua più ampia accezione. La bontà
creaturale emerge in constatazione diretta: “Il corpo che si tende/ la nebbia
che trattiene/ la nebbia che nasconde/ il corpo che le appartiene/ hanno nel
sogno/ la stessa natura”; quale processo che l’autrice definisce in alcune
poesie anamorfico, la messa in evidenza del soggetto originale fa sì che lo sia
in modo tale da essere riconoscibile solo se osservato secondo certe
condizioni, da un preciso punto di vista. In fondo anche la complessità dell’esperienza
anagogica nella teologia dogmatica ci permette il punto di fuga, il guardare
come in uno specchio il nostro essere guardati da Dio. Molti poi sono i
riferimenti a nomi di particolare spessore a cui l’autrice guarda: Saramago,
Dostoevskij, Yourcenar, Carver, ma anche agganci al mondo antico, alla cultura
greco-latina; poi vari gli accenni all’arte cinematografica, al suo
rappresentare l’immaginario che si solidifica, diviene realtà. “Forse è così
che impara la misura/ chi ascolta/ dopo anni di clausura/ il rompersi inatteso
dei portali”, come le prospettive di discernimento acutizzano la capacità di
ricezione e la proiettano verso stadi di consapevolezza struggente, emozionale,
non passiva rispetto alla caducità apparente degli esiti: “Guarda bene./ In
ciascuno, erbe sane e veleni./ Ma è la dose/ che dà forma al tutto./ E’ il suo
impatto/ il suo costo...”. Si identifica anche un’attenzione successiva mossa
dal senso della vista, in una sorta di retina inversa che detiene, in ulteriore
sfumatura, quella composizione dei temi colti già dal significativo esordio che
fu di Valerio Magrelli “Ora serrata retinae”, percorso esemplare
nell’affrontare il tema della messa a fuoco, della difficoltà insita nel
tentativo di raggiungere una conoscenza nitida. Vibrano così pensieri e tempi,
intermittenze e distrazioni, respiri ed echi “della vita/ questa vita/ che
pretende una traccia/ e si scorda/ di lasciare la presa// fino a che/ sarà
infine l’attesa/ non risolta”. Nell’ultima sezione del libro, Raffaela Fazio si
concentra su figure che nella storia hanno espresso con il loro esempio la voce
che condanna ogni discriminazione, la necessità di trasformarsi in operatori di
pace, la vicinanza agli ultimi, la tenace speranza di poter alleviare anche
solo la più piccola sofferenza incontrata in chi ci è prossimo.