domenica 20 agosto 2023

Franco Buffoni, Invettive e distopie, Interlinea, Novara, 2023


 Ancora una volta Franco Buffoni ci conduce attraverso un viaggio nel tempo. Se nel “Profilo del Rosa” il percorso era dettato da un reisebilder che andava dall’infanzia all’età adulta, ruotando in luoghi geografici della memoria, in queste pagine l’autore ci accompagna più esplicitamente nel mondo e nella storia della letteratura con alcuni scrittori tra i più rappresentativi, registrando episodi, lettere, testimonianze che ne rivelano peculiarità e significatività: il tutto senza dimenticare il loro rapporto e apporto con la realtà  contemporanea, sia letteraria che sociale.

I poeti e gli scrittori qui rappresentati sono colti nei loro passaggi più squisitamente indicativi in concomitanza con gli avvenimenti della loro vita. Buffoni indaga lo spirito, talvolta inespresso, che ha indotto alcuni letterati ad assumere determinati atteggiamenti e precise prese di posizione. Non per nulla l’Editore nella Prefazione parla di poetica. Una poetica certo che si concretizza nella vita degli autori stessi, una poetica rivisitata tramite gli scrittori rappresentati, una poetica sicuramente specchio e riflesso di quella di Franco Buffoni.

Si tratta di una importante operazione culturale che l’autore ci offre in maniera piana, spesso ironica, a volte sarcastica, in una ripresa di storiche invettive e distopie (o cacotopie) che vanno ad aggiungersi alle informazioni che, a livello scolastico, già sono presenti nel lettore medio. È un approfondimento necessario, e direi dovuto, per meglio comprendere il mondo della letteratura sviluppatosi in occidente e allo stesso tempo è un ritratto dell’uomo che con la sua malvagia ignoranza uccide l’arte o la deturpa in nome di arcaiche e inconsce sottomissioni a fedi, religioni, superstizioni e gestioni scandalosamente incompetenti. La storia, ci rivela Buffoni, abbonda di tutto ciò. Numerose sono le ingiustizie dovute a classificazioni razziste, misogine e omofobe degenerate in roghi, carcerazioni, deportazioni, a causa di pregiudizi sociali, religiosi, politici. Il primo capitolo (Su Dante, Cecco, Marsilio. E Lorenzo) ne è una testimonianza esplicita.

Cecco d’Ascoli, ovvero Francesco Stabili, arso vivo nel 1327 a Firenze per le sue opere, aveva osato criticare, o lanciare invettive - per stare al titolo del libro - contro Dante, reo di non aver usato la Ragione, bensì la pietas. La diatriba nata nel lontano Medioevo permette a Buffoni di parlare dell’oggi, e di quel clima culturale che ha imposto nelle scuole ideologicamente Dante e Manzoni generando “Padre Pio nel portafoglio e il Gratta e vinci in mano”.

Mi permetto, a questo punto, (non me ne voglia l’autore) una mia personale esperienza nel mondo scolastico, avendo io stesso assistito ad uno svenimento culturale – simbolico naturalmente – di un Preside quando, da insegnante di italiano alle Superiori, ho osato proporre l’abbandono dei Promessi sposi sostituendolo con Il nome della rosa.

Ecco la distopia, già rilevata da Marsilio da Padova nel suo Defensor pacis in cui insegnava “che la codificazione delle religioni rivelate, con i loro dogmi, era strumentale alla necessità di controllare, attraverso le coscienze, i comportamenti da mettere in atto nella vita civile, tenendo menti e coscienze in soggezione”.

Mi sovvengono, a tal proposito, madonne pellegrine e politici col rosario in mano. Ma rimaniamo nel contesto del libro e ai vari esempi che l’autore imposta sul binario delle invettive e delle distopie.

Riconducendosi storicamente al significato etimologico di distopia, Buffoni richiama John Stuart Mill, che usò questo termine al parlamento di Westimster, e ricorda Tommaso Moro che aveva coniato il vocabolo utopia (in nessun luogo ovvero luogo inesistente). L’accenno gli serve per spiegare quale sia il “tratto distintivo profondo tra una narrazione utopica  e una narrazione distopica” che consiste principalmente, per quanto riguarda il testo utopico, in una forma saggistica dispiegantesi “su un amplissimo arco cronologico (appunto dalla Repubblica di Platone a Thomas More, Campanella, Bacone)”, mentre quello distopico “tende ad essere narrativo, pure fiction, ed è concentrato nell’Ottocento-Novecento, post rivoluzione industriale fino ai totalitarismi e alle scoperte scientifiche lette in chiave disumanizzante e fantascientifica”.

Ogni capitolo di questo saggio è un alternarsi tra elementi che fungono da invettiva e tratti di conclamata distopia.

Interessante, a questo proposito, è sicuramente il raffronto tra Parini e a Leopardi. Il trait d’union che li lega è una talare. Sappiamo tutti il perché della vocazione sacerdotale dell’aio lombardo e il rifiuto categorico del buon Giacomino di farsi prete disubbidendo alla volontà paterna. La talare diventa così il pretesto per raccontare la Milano aristocratica settecentesca e la sua originale e sontuosa architettura, come quella del Palazzo Castiglioni, o di casa Rasini e di casa Fontana Silvestri. Nello stesso tempo la talare induce l’autore a soffermarsi sugli amori tra Leopardi e Ranieri, nonché sulla viltà di quest’ultimo che finge di non sapere “la ragione per cui Leopardi cercava uomini giovani e scugnizzi che poi compensava con avarissime mance.”

Non mancano, tra l’altro, approfondimenti di autori stranieri tra i quali possiamo annoverare Ada Augusta Lovelace, figlia di Byron, la cui scrittura, afferma Buffoni, è dotata di una “brillantezza di stile: accattivante, acuto, intelligente.” La presentazione della figura di Ada Augusta Lovelace dà occasione all’autore di raccontare la particolare passione di Byron verso ragazzi e giovani uomini, passione, si direbbe oggi liaison gay, velata da un matrimonio di convenienza. Per questo i Journals, in cui Byron raccontava senza reticenza la sua vita privata, vennero distrutti. “Il risultato” – commenta Buffoni – “fu un vero e proprio crimine commesso nei confronti della letteratura”.

Tuttavia le invettive non riguardano solo il mondo letterario. O meglio, analizzare il mondo letterario non significa isolarlo in una campana di vetro. Il letterato, l’artista, il poeta vivono in tempi e luoghi ben precisi entro i quali si battono e dibattono. Ecco allora che la scrittrice Mary Ann Evans è costretta, a causa di un’imperante misoginia, ad assumere uno pseudonimo maschile: George Eliot. La sua opera fu anche una battaglia contro la ristrettezza morale e l’ipocrisia della nobiltà agricola inglese. Dopo la sua morte il movimento di emancipazione femminile si rafforzò fino a sfociare nel 1897 nel National Union of Women’s Suffrage. Si tratta di una interessante annotazione storica che ci riconduce alla nascita delle cosiddette suffragette.

La storia, questa volta italiana, ritorna tra le pagine del libro con i poeti Elizabeth Barret Browning e Robert Browning, giunti in Toscana dalla nebbiosa Albione. Viene descritta la passione di Elizabeth per la libertà e conseguentemente la sua adozione delle problematiche risorgimentali italiane (dalla guerra d’indipendenza, alla morte di Anita Garibaldi e del Conte Camillo Benso di Cavour). Rilevante è pure l’annotazione riguardante il suo amore verso il marito, a dispetto di un padre arcigno ed egoista: “un amore totale, concreto assoluto, per il giovane marito, con l’espressione della più pura astrazione romantica”.

Come si nota facilmente lo sguardo che Buffoni rivolge ai poeti non è mai a se stante, distolto cioè da problematiche apparentemente lontane dalla letteratura. La vita letteraria è indissolubilmente intrecciata con la realtà, che l’autore indaga ed analizza utilizzando anche alcuni momenti personali da lui dedicati a conferenze, interviste, amicizie.

Nel capitolo consacrato al confronto tra Ibsen e Osborne, ad esempio, dove si narra di un incontro tenuto con i maturandi gallaratesi, ci viene offerto uno spaccato della società italiana che solo nel 1975 ha raggiunto la parità tra uomo e donna, ancora purtroppo non completamente accettata visto i numerosi femminicidi che si susseguono a regolarità impressionante. Mi sovviene a tal proposito l’amore tra Coppi e la Dama bianca, l’uno tranquillamente libero e applaudito, l’altra reclusa e dileggiata al pari di una prostituta.

Naturalmente la conoscenza che l’autore ha della letteratura anglosassone e nord europea, nonché la sua attiva presenza nel mondo della traduzione, lo conduce ad un ampio panorama di nomi: fra questi possiamo ricordare Virginia Woolf, Osborne, Ibsen, Yeats, Forster, Seamus Heaney, Pound, tra i più rappresentativi. E in questa rassegna diventa notevole il lavoro riguardante la collocazione storico geografica degli stessi. Degna di nota, in questa prospettiva, è la ricostruzione dell’iter faticoso e tortuoso che si è avuto nell’Inghilterra, dal settecento ad oggi, a proposito delle leggi sull’omosessualità (definita primariamente con grande dispregio sodomia).

Nello stesso tempo Buffoni non dimentica gli artisti italiani che hanno contribuito a sprovincializzare la nostra letteratura. Fra i loro nomi non possiamo dimenticare Fernanda Pivano, Pasolini, De Mauro. E accanto a questi personaggi noti, l’autore registra poeti dimenticati o misconosciuti, come il palermitano Lucio Piccolo, cugino del più famoso Tomasi di Lampedusa. A lui, e ad altri poeti suoi conterranei, come Sinisgalli, Bodini, Matacotta, Lorenzo Calogero, mancò un critico, sottolinea Buffoni, come l’Anceschi che “li catalogasse e antologizzasse già negli anni cinquanta”, vale a dire “un accorto sistematizzatore, un filosofo dell’estetica in grado di definirli”. Tra loro Piccolo fu il più fortunato perché incontrò l’ammirazione di Montale, “ma gli altri sono rimasti quasi sistematicamente nell’ombra”.

Molto avvincenti sono le pagine in cui l’autore si espone maggiormente come persona più che come studioso letterato. Mi riferisco in particolare al capitolo “Sereni e mio padre” che parte subito da una confessione: “in lui (in Sereni) vedo mio padre.” Forse per questo il poeta di Luino è stato per Buffoni un maestro, colui che ha inciso maggiormente il suo percorso poetico. E ancora una volta l’opera poetica non viene scissa dalla vita. Sereni, tenente di fanteria, che si trova ad affrontare una guerra sbagliata dalla parte sbagliata, fatto prigioniero in Nord Africa, racconta in versi il dramma di un uomo a disagio col proprio tempo, umiliato e distrutto. Non si tratta solo di una recensione all’opera del poeta luinese, bensì di una dichiarazione d’amore e di stima, così come deve essere il rapporto fra padre e figlio: un riconoscimento dovuto, un omaggio agli insegnamenti ricevuti.

Un altro aspetto sicuramente importante è il pensiero di Buffoni a proposito del tradurre. La traduzione, d’accordo, fa parte della sua professionalità, ma sono sicuramente da non trascurare al riguardo le tante annotazioni sistematiche che disvelano la puntigliosità e la fatica del suo operare. Ci sono capitoli considerevoli che riportano pareri e confronti, come ad esempio le pagine che parlano di Luciano Bianciardi dove viene sottolineato che “per tradurre da una ex lingua di Chaucer e di Shakespeare nella ex lingua di Petrarca e Tasso (…) occorrono l’incontro poietico e la concezione del movimento della lingua nel tempo; e soprattutto occorre avere costantemente presente il concetto di stratificazione del linguaggio.” Naturalmente il riferimento a Bianciardi è un momento tra i tanti in cui l’autore esprime il proprio parere e la propria poetica. Non posso in questa sintesi riportare tutto, ma una segnalazione su due punti altrettanto necessari mi è d’obbligo. Uno è il richiamo al pensiero di Céline, sempre riguardante la traduzione, l’altro ad una personale riflessione sulla propria “ritraduzione” di Seamus Heaney con l’avvertenza finale che chiosa: “L’importante è che – complessivamente – la traduzione che in quel particolare giorno si è compiuta sia coerente, risponda a un ritmo autentico, possegga una intonazione profonda.”

Quanto specificato corrisponde pienamente anche alla poetica di Buffoni che trova ampie spiegazioni nel capitolo “Pasolini e Byron: questioni di poetica” nonché in “Piero Chiara: per una questione di poetica” dove ricompare la figura di Anceschi, che con la collaborazione di Chiara ed Erba mette in piedi una Antologia “Quarta generazione” riguardante giovani poeti di allora quali, tra gli altri, Zanzotto, Spaziani, Cattafi, Merini. In queste pagine si registra – almeno io la sento così, e mi scuso se interpreto male – una sottile polemica da parte dell’autore nei confronti di Piero Chiara che pare avere una certa “commiserazione” per i poeti contemporanei, perché in sostanza le attenzioni del romanziere di Luino erano tutte rivolte alla narrativa e non tanto alla poesia. Ciò è dimostrato dal fatto che lo scrittore del Piatto piange, quando fu invitato a presiedere il Premio Tirinnanzi privilegiò l’anonimato e la singola poesia, piuttosto che la silloge con nome e cognome. Aveva abbandonato in tal modo le indicazioni del dedicatario del futuro premio, che prevedevano invece una scelta tra i migliori libri di poesia editi nell’annata, contraddicendo pure la poetica anceschiana che affermava che un poeta doveva essere valutato nel suo complesso e non su una singola poesia.

In definitiva, le tante pagine, che non ho ricordato per motivi di spazio, le tante osservazioni, i tanti modelli critici di poeti, romanzieri, saggisti, i tanti avvenimenti citati e presenti in Invettive e distopie aprono un mondo e un modo di fare letteratura che possiede potenzialità da non sottovalutare. Si tratta, in sostanza, di un’amplissima gamma con cui confrontarsi e da confrontare in un fondamentale passaggio storico-culturale, tutto da assaporare e rimeditare in continuazione per un arricchimento dello spirito, laicamente inteso.

 

Enea Biumi

Franco Buffoni, Il profilo del Rosa, Luigi Pellegrini Editore, Cosenza, 2023


 

Il profilo del Rosa è un viaggio nel tempo, un reisebilder a ritroso, in cui l’autore rievoca luoghi e situazioni del suo vissuto, senza però abbandonarsi a sterili ed inutili sentimentalismi. Anzi. I versi non sono altro che un racconto introspettivo della propria esperienza di crescita e di maturità. Nulla di nostalgico. Niente rimpianti. Nessuna lamentela sul passato. Solo un percorso che richiama luoghi frequentati e particolari situazioni.

                                                           E io che vivo da ottant’anni quasi

                                                           È stata vita dico alzando le braccia,

                                                           Sotto di me e sotto la mia barca

                                                           Le trote oscillano guizzano tra i cardi

                                                           Discendono allo scafo azzurro capovolto,

                                                           Verso già capofitto il mio contrario

                                                           A due tre metri.

Premesso ciò, è chiaro che la silloge diventa un’interessante fotografia entro la quale il poeta si riflette e si rivede, bambino, adolescente, adulto attraverso anfratti di paesaggi, dettagli domestici, echi letterari. Di per sé è una panoramica di vita che sancisce le caratteristiche di un esame e che ripropone, in chiave poetica, un mondo che sta a metà tra l’immagine della grandezza della natura – evidente in questo caso la metafora del Rosa – e l’esistenza quotidiana dominata da oggetti che ricorrendosi e rincorrendosi nel tempo assumono connotati differenti.  I versi inziali offrono l’incipit di quello che avverrà poi.

Una radice ha rotto il vaso

Nell’atrio della casa riaperta

La pianta è sempre stata bagnata

Dal vetro rotto dal vento.

Nel ritornare all’antica abitazione il poeta scopre che qualcosa si è rotto (il participio del verbo rompere è presente due volte in soli quattro versi), ma non completamente, perché la pianta è sempre stata bagnata, quindi la vita nonostante le intemperie è potuta proseguire, sia pure con affanno.

Il viaggio, si sa, (reale o fittizio che sia) è un topos letterario (dall’Ulisse di Omero alla strada di Kerouac) e ha l’attrattiva di una crescita e di una presa di coscienza mano a mano che si avanza e in relazione con chi si incontra e con chi ci si confronta.

Nelle religioni misteriche antiche si otteneva salvezza, e quindi consapevolezza, dopo aver percorso le vie più impervie e pericolose cha annullavano la personalità del neofita. Era necessario conoscere il male per poi rinascere nel bene. Ne abbiamo un esempio significativo nella Commedia di Dante, o ancora nella più divertente novella boccaccesca di Andreuccio da Perugia che per capire la realtà deve prima cadere dal chiassetto per poi precipitare nel pozzo e rimanere chiuso in un sepolcro.

Ma dove sta il male in questo profilo del Rosa che apparentemente non ha nulla a che spartire con le cadute e l’annientamento di se stessi prima di una definitiva risurrezione? Bisogna leggere questi versi come un incatenarsi di tanti rimandi, una serie di metonimie o metafore che collegano il luogo al sentimento. Se Montale utilizzava il correlativo oggettivo per spiegare (o meglio per tentare di spiegare) il male di vivere, Buffoni impiega parametri di implicita diairesi.

                                Me ne nutro, ci sguazzo in questa faccia

Ancora da ragazzo che mi vedono, e agglutino

Nel sacco insieme a un cane e a un gallo,

Senza vipera e serpente.

Non ho ucciso niente.

Certo è che il viaggio non è lineare o senza ostacoli. Non lo fu quello di Odisseo né quello di Sal Paradise. Ma non di meno gli ostacoli che si frappongono contribuiscono a sviluppare una presa d’atto: rinsaldano radici, rafforzano la consapevolezza dell’io, l’immagine del sé nei confronti dell’altro.

                                               E comincio a riconoscere stagioni

                                               Dalle vene dei mobili, i rumori

                                               Che fanno assestandosi di notte

                                               La temperatura delle ossa

                                               Questione di coperte e di verande.

Si tratta in sostanza di un Bildungsroman in versi, che si snoda attraverso rivelazioni sapientemente correlate ad avvenimenti quotidiani che diventano ipso facto testimoni del vissuto del poeta. Sembra un incontro con un armonicista in grado di accordare strumenti diversi per intonarli all’unisono in uno spettacolare assolo esemplare.

La sinfonia che ne sorte ha l’andamento simile al poema musicale Eine Alpensifonie di Richard Straus: un inizio quasi in sordina che si avvia poco a poco, e senza che noi ce ne accorgiamo, ad esaltarci con la sua potenza e maestosità. La maestosità delle Alpi, per l’appunto – o del Rosa nel nostro caso – e in generale della natura.

Il desiderio di orchestrare i ricordi diventa allora come un polittico che si apre e si chiude a seconda delle occasioni e che fa intravedere alcune specificità, disvelando chiari e scuri, che racchiudono ricchezze da esplorare o commentare. 

                                               Come un polittico che si apre

                                               E dentro c’è la storia

                                               Ma si apre ogni tanto

                                               Solo nelle occasioni,

                                               Fuori invece è monocromo

                                               Grigio per tutti i giorni,

                                               (…)

            In definitiva il polittico assume il valore della metafora della vita: una sorta di finestra donde guardare avvenimenti e persone, ed esplicitare sentimenti, desideri, angosce, dubbi, storicizzando come in un diario intimo i momenti salienti che ci hanno permesso di crescere e maturare.

                                  

Enea Biumi

 

venerdì 14 luglio 2023

Antonella Doria “Conversazioni sull’Orizzonte” (Book Editore, 2023)


 

Forse davvero l’assenza torna presenza come negli spiragli delle citazioni; “Capita   a volte/ in un agosto come questo/ con il cielo azzurro/ corpi clandestini...”, forse ancora intaglia la percezione di una strategia che l’afflato civile denuncia nel ritmo volutamente franto, spezzato. E’ il segno della condivisione operante lo smottamento linguistico nell’esito poetico “Conversazioni sull’Orizzonte” di Antonella Doria. L’epicentro è nel tratto abilitato alla costruzione del verso, nella traccia che concede lo spazio bianco di pausa all’interno stesso del passo, nella deriva dell’interpunzione aderente ad una sillabazione materica, nei tratti d’interposti elementi a segnale d’interscambi fra detriti e corrispettivi stralci di dolore. E’ diceria di Luna che suona a condono e congedo, a insenatura talmente scolpita da risiedere in vento, in golfo, dove l’acquisizione della struttura nominale attende l’intervento dicibile del taglio a corrente, a flusso instabile, come “silenzio d’una polvere/ oro   inquieta frantuma/ pensieri   l’ora che dura/ nel passo   nel pianto”. Allora la danza è notturna; Antonella Doria compone le passioni operose, le tramature interroganti, gli slanci reiterati, attraverso la domanda cosmica a contatto con le arditezze del coraggio. Di nuovo l’iterazione si fa paziente e sapiente riverbero ritmico in contrazione di verso, in ritmo infranto sulla soglia di una dicitura esatta, compiuta e nello stesso tempo aurorale. Nel prima di tutto o nel dopo tutto le trabeazioni linguistiche accennano ad una compostezza raggiunta nell’equilibrio dei tempi, nell’esegesi dei rimandi, degli omaggi ai tanti autori, agli artisti che hanno sperimentato esili e travagli. E il corpo a corpo è intimo, intagliato nelle protuberanze formose della condizione terrena, nel viatico accenno alla esclusione, alle soffocate dimensioni del bisogno, della persecuzione. Il ritrovarsi è specchio di un umanesimo desto, percosso ma reattivo, episodico trauma adibito a scenario dove quella vita intestina rimuove filtri e ancoraggi, giungendo alla fonte del mito, alla quotidianità del passaggio. Comporta attenzioni empatiche il fondersi di parole qualora acuisca il segno l’evidenza dello slancio al rimando, alla evocazione nel riferirsi, ad esempio, ai destini di poeti come Mandel’stam e Achmatova, di artisti come van Gogh. L’osservazione sulla terra natale, costante riferimento dell’autrice, quello spasimo di Palermo, per citare Vincenzo Consolo, quella “materia corporea   fiumana/ viva inerme   (bocche aperte/ al grido) né   l’aria nera   stretta/ pure corse oscura   di bocca/ in bocca   la freccia la paura”; così la fiumara, i pendii, le fiamme mugghianti, l’acquachiara, l’appiglio, il ritmo e il rito. E’ un comprimersi linguistico d’inventiva strutturale ove due versi concedono quasi la fonetica solida di una sintassi segnaletica “pinimarittimieplumelie/ eucaliptipalmeoleandri”, nominazioni componibili in alternarsi di variabili. Anche le volumetrie vogliono evocare la possibilità, l’opzione di pagine mai scritte che si traduce in rilievi amari: “Destinazioni d’Uso/ Servizi   non conteggiati/ ma anche...pungoli/ Desideri   assilli persuasi/ Prestiti   a fondo perso/ (Indifferenze   metropolitane)”. C’è, nella poesia di Antonella Doria, quasi un desiderio mimetico, una capacità d’inserirsi nello stesso dettato della composizione linguistica, un rapporto intimo con le parole, come giustamente ha osservato Giulia Niccolai. Il testo si dice e ci dice la volontà dell’autrice: “cerco   fra   massimi sistemi/ qualcosa   proprio rasoterra/ uno sfogatoio   una turca   o/ latrina   una udienza pubblica/ una lingua arcaica   forse”. Se poi avevamo avuto come uno dei massimi esempi della poesia del secondo Novecento un “Paesaggio con serpente” di Franco Fortini, Doria ci propone ora un “Paesaggio con Figure”, un’architettura dove la dilatazione utilizza ancora l’interpunzione per assecondare cadenze nel significante, quando si racconta, quando la partecipazione emotiva si traduce “Per certi versi... ...meravigliosi/ gigli... nascono crescono da/ amori carnali   carni impastate”. Antonella Doria imprime allora al verso la direzione maieutica di una vera dichiarazione di poetica: “Per certi versi... ...pensieri/ nella notte   (zampettine.../ d’albanella pallida alla spiaggia/ al mattino)   quasi scrittura   serve/ una traiettoria   a seminare indizi”. Quegli indizi che portano alla esatta dimensione del poetare.

                                                                                                      Andrea Rompianesi

domenica 2 luglio 2023

Enea Biumi, Sfulcìtt - Inganni, Lupi editore, 2022


 La vita come affanno nella citazione da Lucrezio, autore amato da Enea Biumi che in questa sua opera poetica in lingua varesina, proposta con la relativa versione italiana, attinge dalle grazie inesauste della quotidianità esposta nel teatro della natura, quelle sensazioni accese nell’attimo del passacuore, nella dicitura limpida del presagio, attraverso la sedimentazione di una malinconia. E’ una osservazione liminare alle soglie di una funzione che abita l’espressione interrogante, al calmo sentire della brezza percepita; così l’andare della poesia stessa e il guardare i riflessi contingenti: “La vàrdi vugà via/ tutt a un bòtt/ senza paròll”, “La guardo volar via/ improvvisamente/ senza parole”. Una riscrittura in due lingue specifiche, quella di Biumi, più che una traduzione; quasi una mutabilità di accensioni sonore nella concentrazione delle sillabe, del ritmo anche notturno che evidenzia le incertezze e i dubbi rivisitati attraverso correlativi panici. Il vento anima le eccezioni, le conduce nello scorrere impassibile dei mesi e delle stagioni; acconsente nell’ambiente ad una osservazione che può essere lamento ma non ignaro di una ironia gentile e contemplativa. Il sogno ripercorre, a volte, l’insenatura del tempo per recuperare i minimi atti di un’era lontana che riemerge nella peculiarità di uno stimolo sempre sensitivo. Ancora sussurra l’anelito ungarettiano dell’essere creatura ma nel confronto della pietra con il pianto che non si vede, con le attese cadute, le stanchezze; nel verso che il poeta pone a chiusura di una sua poesia: “e sunt un sass”, “e sono un sasso”. L’istante fermo del silenzio che comporta tutta la serietà della scommessa che segue il dubbio, ma anche della dolcezza espressa dal sentimento amoroso che contrasta la fatica dei giorni, il male di vivere. Ci sono voci che giungono da suggestioni antiche e agresti, da estensioni seduttive e osservate nelle variazioni cromatiche dei tramonti, nell’accendersi delle parole, nelle titubanze che determinano il nostro procedere. Fiati di vento e cortili d’infanzia, “il sole nasconde il caldo/ dietro nuvole nere come corvi”, respiri emergono dalle stanze dell’ascolto, pergole e lacrime, tutta la dimensione esistenziale che Enea Biumi raccoglie, filtra ed interpreta con sensibilità acuta e ponendo quel punto di domanda che non esclude il timore della mancanza: “Uramài i campàgn/ hinn di sfulcìtt/ ca gìran a tùrna ai pòbi/ e ai scarpà di rùng”, “Ormai le campagne/ sono inganni/ che si aggirano fra pioppi/ e argini di rogge”. Inganni appunto, ma anche estreme aperture, ostinati aneliti nell’attimo in cui “Lusingano sempre/ i rami fioriti del ciliegio”.

 

                                                                     Andrea Rompianesi


mercoledì 28 giugno 2023

Angelo Manitta, La regina di Saba (La Reine de Saba), traduzione francese di Jean Sarraméa, Il Convivio Editore, Castiglione di Sicilia (CT), 2023

 


La storia della Regina di Saba viene narrata in tre libri diversi che rimarcano sostanzialmente un’unica vicenda: l’incontro della Regina con Re Salomone. Sia nella Bibbia, che nel Corano e nel Kebra Nagast, al leitmotiv dell’ammirazione della Regina per Re Salomone, si aggiungono la smisurata ricchezza del regno di Saba donata al Re e velatamente, per il Corano e la Bibbia, esplicitamente per il Kebra Nagast, l’amore tra i due regnanti. Gli studiosi hanno tentato di storicizzare l’avvenimento, ma rimangono dubbi e la distanza fra religione, leggenda e storia sembra non essere colmata.

Tuttavia, ciò che non riesce agli studiosi viene raggiunto dai versi di Angelo Manitta che, in un unicum coinvolgente, attraversa storia, leggenda, religione, offrendoci un ritratto che va ben al di là del dato contingente per trasformarsi in qualcosa di immateriale, universale e senza tempo. La poesia ha questa capacità illuminante e trasformatrice, sa uscire dal marcescibile e donarci l’ebbrezza dell’assoluto.

In questo contesto il lettore affronta lo stesso viaggio regale della regina di Saba e si ritrova immerso in un mondo favoloso, al limite della magia e del surreale. È, tale, la funzione dell’incipit che ci introduce in una meravigliosa luminosità (“Sgranano grappoli di luce le alcansie / lanciate nell’aria da rotondi universi”) e il deserto diviene motivo di curiosità e di racconti ancestrali dove si misurano donne impaurite dai serpenti e bimbi incuriositi, dove le carovane attraversano esotiche dune e la sensualità si scontra con demoni tentatori. Siamo davanti ad una sorta di prefazione che serve ad introdurci nel munifico mondo d’una regina, che non solo offre al re stupende e innominabili ricchezze, non solo fa richiesta di strani e variegati quesiti, come se volesse testare la sapienza di Salomone, ma si concede in toto ad un amore sublime, materiale e spirituale allo stesso tempo.

Ecco allora che lo scandire delle azioni segnano il destino degli amanti e le voci che si susseguono hanno la complicità e la varietà di un andare musicale che accompagna gesti e pensieri. “Le mie parole volano in eccelsi pinnacoli / e lì restano appiccicate in muti frontoni”. Ma non esistono solo parole “che inseguono parole”. Esiste l’incombenza del viaggio, l’anelito dell’incontro. La regina è circondata dal desiderio, immersa in “tentazioni di stelle / flagellate dai tramonti (…) giochi d’amore / che risvegliano fantasie di Eros nella bellezza / d’un maschio, sesso innocente di piaceri.” Però il cammino sembra incedere lento, mentre “scie di carovane (…) attraversano la pianura, solcano / il deserto”. E l’aspettazione diventa bramosia d’amore. “Il sangue giovanile /delle sue passioni scorre in fantasticherie / erotiche d’un giovane re che la violenti”.

La distanza geografica non si riduce ancora. Si fa sentire nell’animo. Si traduce in similitudini evanescenti come sono evanescenti i sogni e i desideri. “La strada è lunga, gli argini indefiniti” e non è sufficiente l’oro di Ofir o le tazze di smalto o i tavoli d’argento. La regina sembra impaziente, è impaziente: “spinge con gli occhi i saturi cammelli”, sebbene nel frattempo “L’ansia dell’alba si è spenta nell’ombra / di un’oasi.” E finalmente si annuncia lo sposo, in tutta la sua regalità di “nordico re”, nella considerazione amorosa, nella dolcezza di una fantasia avveratasi nel momento in cui “porge la mano ai datteri che pendono / dalla bocca di una bianca imperatrice innamorata”.

L’incontro, a questo punto, palesa non solo la gioia rasserenatrice della regina ma l’entusiasmo di un’intera popolazione, che si vede come liberata da un incubo. “Mormora il passante tra le viuzze cupe, / borbottano le voci entro le case buie. / Le maghe agli angoli fanno sortilegi, // le puttane aprono le gambe agli avventori, / ignari dei turgidi sessi abominevoli. / In filari, le porte, chiuse con spranghe / di legno, ondeggiano al venticello delle colline, // e foreste di cedri, piantate sulle strade, / come scheletri di abeti sognano ogni notte / giochi d’amore e coppe di vino / innalzate al cielo per essere bevute.”

È facile notare, ora, che il seguito della regina (e ormai anche del re) non è costituito solo da uomini, servi e liberi allo stesso tempo. Il contorno che riempie lo spirito degli amanti è composto pure dalla natura che segue, come in un tripudio magico, l’unione dei due protagonisti.

Dapprima la regina pone quesiti a Salomone che risponde in maniera saggia e perfetta. “Gli occhi si incrociano in una sfida di sapienza: / enigmi proposti contro enigmi sciolti”. In un secondo momento, abbandonate domande e sentenze, l’amore tra i due raggiunge il suo acme. Amore sensuale e amore spirituale si intrecciano intersecandosi senza tregua. La descrizione che ne sorte ha un che di sublime. Non c’è volgarità, sebbene le parole mostrino tutta la carnalità dell’essere umano. Ciò che si sottolinea è la felicità dei corpi e dell’animo: è la vita stessa che dona e si abbandona in un viluppo di estremo edonismo, nel pieno piacere di ricevere ed elargire vicendevolmente i propri corpi e la propria anima.

Il paragone col “Cantico dei Cantici”, attribuito come si sa al re Salomone, viene, a questo punto, spontaneo. Sebbene, a mio avviso, al testo di Manitta non posso ascrivere valori simbolici bensì filosofici. C’è infatti un’iterazione di concetti che trascendono la semplice metafora. I termini “ricchezza”, “onestà”, “felicità”, “bellezza” sono ripetuti, nel susseguissi delle quartine, ben quattro volte ciascuno e all’inizio di ogni quartina, dando risalto e valore a quello che di più prezioso l’uomo possiede. Qui il poeta sembra voler uscire dalla narrazione e farci riflettere anche sull’attualità. Alla fine, se è vero che la ricchezza è stata un fattore intrinseco alla visita della regina di Saba, è pur vero che non è sufficiente, così come non sono sufficienti la bellezza o la stessa onestà. È necessario amalgamare il tutto perché solo in questo modo “la saggezza dell’uomo si misura nel vivere / distaccati dal mondo e dalle emozioni” e “la saggezza d’una donna innamorata sta / nel capire che tutto è finito”. Vale a dire è necessario possedere la capacità di andare oltre la passione. Sembra quasi di ascoltare la filosofia di Epicuro in questi ultimi versi che terminano con una descrizione disincantata, e liricamente avvolgente, della natura.

“Canta / il vento una canzone triste alla partenza // della carovana, piangono i cammelli e i cammellieri, / piange il suo cuore nell’ultimo sospiro. / L’orizzonte che accoglie umidi albori / spegne nell’aria emozioni d’amore”.

 

Enea Biumi

martedì 20 giugno 2023

Enea Biumi, Sfulcìtt - Inganni, Lupi Editore 2022



Una raccolta in vernacolo, fatta di “riflessioni tra dubbi, asserzioni, sogni”

Questa volta Enea Biumi, pseudonimo di Giuliano Mangano, scrittore, poeta, intellettuale varesino, ci regala “Sfulcìtt”, che significa “inganni”: un’intensa raccolta in vernacolo, fatta di “riflessioni tra dubbi, asserzioni, sogni”, edita da Lupi editore nel 2022. Parte proprio da una libera traduzione del “De Rerum Natura” lucreziano:

La vita l’è ‘na nòcc de tribuléri

e la cùur cumpàgn d’una saéta

La vita è una notte di affanni

e corre come una saetta

Si tratta di una raccolta molto esistenziale, che fa riferimento alla vita vera, all’erlebnis, con espressioni che solo il dialetto può rendere, sia perché era - e dico “era” - una lingua più vicina al popolo, alla saggezza popolare, e non alla sapienza degli intellettuali, sia perché la vita cui si riferisce era più semplice, più genuina. Peccato che il dialetto si sia perso tra le giovani generazioni. Nel Sud è un po’ diverso, ancora si respira il fascino delle tradizioni popolari, della lingua. Ogni paese ha una lingua diversa, tradizioni diverse. Il dialetto reca con sé un patrimonio vastissimo culturale orale, che rischia l’estinzione. Quest’assaggio di Enea ce ne può rendere un minimo di sapore. E sapienza deriva da sapore: dà l’idea di mangiare. Ricordate la metafora del profeta che divora i rotoli della Torah.

Dìsan che cunt un bòff de fantasia

Domenedìu l’avrìa fa ul mund

giüst in pòcch tèmp

Dicono che con un soffio di fantasia

Domineddio avrebbe creato il mondo

solo in poco tempo

Si tratta di uno di quei detti che la sapienza popolare ci offre dal suo scrigno arcano di tesori, tesori che rimandano a quelle idee archetipiche dell’inconscio collettivo junghiano. Dio, come diceva Eraclito, è un fanciullino che gioca ai dadi. È l’oltreuomo per eccellenza di nietzschiana memoria. Cristo è l’oltreuomo, colui che ha effettuato tutte le metamorfosi (cammello, leone, bambino).

L’uomo è:

Anima biòta

tra bistùrni e stranzénn

slisàda in un cièl a tacùnn

Anima nuda

fra maldicenze e malocchio

consunta in un cielo a rattoppi

Notate come il vernacolo tende sempre alla rima, alla musicalità, al ritmo, all’eufonia. Il dialetto è canzone, è armonia, è intuizione dello slancio vitale bergsoniano che si tuffa nel tempo, il tempo dell’anima. Il mondo contadino è fatto di credenze, di malocchi e di fatture, di quelle che noi chiamiamo superstizioni, come se appartenessero agli uomini primitivi: ma in effetti - diciamoci la verità! - anche noi ci crediamo. L’uomo contemporaneo crede ai maghi più che mai, perché l’uomo stesso è impastato di fantasia, e di magia. La vita è sogno, come dicono molti poeti e scrittori.

Leggere Enea è sempre bello, tanto più in questi versi, così stringenti, attuali, e sentiti.

 

Vincenzo Capodiferro

 

(tratto dal blog "Insubria Critica")

martedì 2 maggio 2023

Prospero Antonio Cascini – Prospero Valerio Cascini, Lucanità saracena tra poesia e fotografia, Monetti Editore, 2022

 


 

La terra in cui si nasce è come una madre. Ce lo insegna il Foscolo in quel prezioso sonetto che inizia con “né più mai toccherò le sacre sponde”.  Ed oltre ad essere madre è anche sacra. Questi due termini di maternità e sacralità ben si addicono al volume “Lucanità saracena” di Prospero Antonio Cascini e Prospero Valerio Cascini. Non si tratta, notate bene, di una semplice e scontata linea encomiastica, come di solito avviene nella descrizione e rievocazione di un passato felice in un luogo idilliaco, soprattutto là dove si innesca il vernacolo o il vissuto in città lontane da quella natia. Si tratta bensì di un ritratto, amorevole certo ma non sdolcinato, in fotografie e poesie di Castelsaraceno. La responsabilità dell’impresa è dovuta a due cugini, Prospero Antonio Cascini e Prospero Valerio Cascini che si sono impegnati a raffigurare una civiltà antica proiettata nel futuro, una civiltà fatta di bellezza e tradizione, di passione e di memoria, di realtà e poesia. D’altra parte i due autori non sono nuovi ad operazioni di tal genere. L’uno, Prospero Antonio, ha nel proprio curriculum volumi e premi di poesia, l’altro, Valerio Prospero, vanta raccolte in vernacolo premiate e celebrate. Entrambi i poeti hanno la capacità di saper intrattenere il lettore e condurlo ad emozioni e riflessioni attraverso una versificazione che non si avvale di orpelli retorici ma si aiuta di icasticità e sensibilità. Un piccolo esempio è la lirica “La lucanità saracena” di Prospero Antonio. Notate il suo incipit accattivante:

“Dormirci sopra

in un anfratto innevato

tra un cirro argentato

e un bucaneve imbalsamato”

La lirica poi prosegue nell’evocazione amorevole e sincera del suo Paese dove “pendono nelle toppe le grosse chiavi / dei palazzi antichi”, dove “è il sogno di ognuno / che lascia il segno… / sul proprio selciato”.

Non meno incisiva è la lirica di Valerio Prospero, tutta legata ai suoni dialettali che sono un segno di ancestralità e di passione e che rievocano momenti topici della vita a Castelsaraceno (dalle feste religiose, come il Natale, ai gesti quotidiani come la compra vendita al mercato, o a figure tipiche del posto come commà ‘Ndumeta o Filice u Sinisaro). Nulla, come in precedenza sottolineato, di regionalismo encomiastico, ma momenti di vera ed autentica poesia esaltati dalla musicalità di un patois lucano saraceno, come ben delineato in questa lirica dal titolo “Puhisia” (Poesia)

“Fammila na puhisia e ch’ t’ costa.

Parole ‘mbastate ca parole a bella posta.

Ca nu sbendano a l’aria pi fa sputa,

ch’arrivano d’rett’ addun’ so’ binut’.

Rammila na puhisia

a voglio tene ‘ndu portafoglio

cum’ fosse a zita.

Parole ‘mbastate cu parole

pi tutt’ a vita.”

(Fammela una poesia e cosa ti costa. / Parole impastate con parole a bella posta, / che non siano insulse tanto per parlare / ma che arrivino dritto al cuore che le fece andare. / Dammela una poesia, / la voglio tenere nel portafogli / come una sposa. / Parole impastate con parole / per tutta la vita.)

 

 

Enea Biumi

L'ANIMA nella Poesia di Prospero Cascini fotografata attraverso la PROPRIA, a cura di Salvatore Monetti

  La poesia, in molte delle sue forme, è molto più di un semplice esercizio linguistico o di un passatempo estetico. Essa è da meditazione. ...