Le parole a noi care. Parole leggere e pesanti. Parole che possiamo amare o temere. Tommaso Giartosio, in questo suo titolo “Autobiogrammatica” si rivela già ai primi passi del testo un innamorato sedotto dalla forza vitale del linguaggio. “Mi chiamerò a parlare un esempio: il nome Luca. Luca, luminoso anche nella sua tonica buia, nome bruno con una vocale azzurra; Luca maschile, ma a sorpresa congiunto dalla a finale al femminile”, poi Giartosio evoca il verso dantesco “E vegno in parte ove non è che luca” nel senso di luogo dove non c’è nulla che risplenda. Attento così ad un sussurro materioso di una vita fatta di parole in una scrittura che Michele Toniolo direbbe dolomitica, ricca di tagli, di forre, ipogei e spazi scolpiti dalla levigatura delle acque. Forse, davvero, un immortale non scriverebbe, perché il muoversi tra le incisioni della penna è un tentativo di salvare il passato dalla prospettiva di un senso di risposta alle attese di quel finire che anticipa la morte nel suo precederci. Attraverso l’articolarsi dei segmenti di un lessico che si fa corpo, Giartosio imposta una vera e propria autobiografia che rivisita gli accenti e i ruoli del padre innanzitutto, poi delle sequenze nelle quali la stessa dimensione non solo sonora ma tattile dei vocaboli costruisce l’impalcatura vigile delle condizioni appropriate ad un nominare fruttuoso, policromo, effettuato nel rigore dei tasselli normativi di una filologia narrante. Perché l’autobiogrammatica dell’autore è comunque un vero percorso narrativo che vede nella prosa anche l’innesto di riquadri con sviluppi grafici capaci di porsi quali schermi adibiti a luoghi abitabili dalla visibilità linguistica, nella cornucopia feconda di enti nominali a vocarsi per segnaletiche semantiche. Lettura per palati esigenti ma anche ricettivi verso una sensibilità idonea ad esporre nella sinestesia l’apparato descrittivo nel suo proliferare creativo, dove lo sguardo analitico supera il suo schema rigoroso per farsi suggestione alchemica, supporto intimo, fascinazione corsiva. Poi la madre, la madre solare. “Lingua madre: foresta di mangrovie. Acqua, terra, cielo, nubi, acqua. Rami come braccia a radere l’acqua, nuvole rade, bracci di palude, radure di cielo”. Assonanze, intese, rimandi, allitterazioni. Espressioni che assumono il connotato del lessico familiare nei segnali che innestano espressioni, modi di dire di un certo plurilinguismo ancorato a rivelazioni di passaggi privati o epocali, in un risvolto anche sociologico che pone l’aspettativa della riflessione e della domanda; il confronto generazionale e la responsabilità adulta, l’esordio adolescenziale e il ripiegamento senile. Le parole che abitiamo e che ci abitano nella cadenza rumorosa, quelle che abbiamo attraversato, magari nella penombra indicata da un’autrice come Lalla Romano. Ad un certo punto Tommaso Giartosio coglie il senso delle cose che finiscono, l’episodio della morte a cui si assiste, e scrive di una notte nella quale uno strano brusio di giungla notturna lo conduce alla salita verso una soffitta. E la stanza sembra abitata da nomi volatili; la grande seduzione esercitata dal mondo animale e dai suoi suoni, quelli più originali e inusuali. Forse un’avventura panica in slanci onomatopeici. L’autore vive le parole come fossero terreni fecondi, confini sensuali, agglomerati fruibili nella costruzione di una identità. Infanzia e adolescenza, pulsioni fisiche e sofferte acquisizioni di ruoli imposti da chi esercita forme di ostile o complice violenza, dicitura di lettere che tracciano segni componenti figure e disegni riprodotti tra le stesse pagine. Tommaso Giartosio esplicita anche un dolore, quello intimo e riposto della sensibilità più tenace; qualcosa che il tempo porta alla cura attraverso una sublimazione lirica, una rivisitazione delle dipendenze nei loro tratti visivi che la lingua multiforme dell’esperienza scritturale ripropone e interpreta. Allora i colori, come nelle vocali di Rimbaud, saranno le voglie inattese o le apprensioni corpose, le accensioni che condizionano la nostra ibrida natura epidermica. La lingua altra, inoltre, divaricata, diventa solido ancoraggio per una rivisitazione che assurge ad una rinascita capace di riportarci, di nuovo, lungo quel tracciato dell’origine a cui inevitabilmente sappiamo, prima o poi, di ritornare. Nel libro di Tommaso Giartosio la penna diviene strumento del lavoro artistico, artigianale, immerso nelle scaglie, nei frammenti della composizione alfabetica. In un vedere che sa rendere le forme non si può non pensare all’affermazione di Heidegger secondo la quale se la paura oscura lo sguardo, lo stupore lo illumina; quando un timbro originario indica il procedere del pensiero all’interno della svelatezza di ciò che è presente. Tutto, nel testo di Giartosio, implica il privato e il pubblico, l’intimo e il sociale, la natura sessuale e giovanile dei richiami e l’esortazione peculiare del politico; così come il passare dal concetto di forma delle parole alla figurazione dell’ideogramma, sapendone esprimere esempio complesso nella poesia di Pound. La stessa esperienza sensuale del linguaggio dovrebbe però anche saperci viaggiatori liberi, quindi ben oltre i condizionamenti oppressivi della pervasiva natura ideologica, e di ogni ideologia che giunga ad esercitare un potere.
Andrea Rompianesi
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